108 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte II) (16.04.06)

Il pensiero della settimana, n. 108

 

«Dio fa morire e fa vivere» (1 Sam 2,6), canta Anna, la madre di Samuele nel suo inno di ringraziamento. Nella Bibbia ebraica è certo che Dio ha fatto la vita e la morte e che il primo termine prevale sul secondo: la bontà della vita si incontra con quella della morte in tarda età (cfr., Gen 25,8; 35,29, Gb 42,17). Il procedere è lineare. Completato l’arco dei giorni dell’esistenza umana, circondati da figli e nipoti, il distacco dalla terra non è rivestito da alcuna drammaticità: si è vissuto; altri, nati da noi, prenderanno il nostro posto. Di contro la bontà di una scomparsa di una giovane vita può diventare pensabile solo quando la morte è concepita come una forza penetrata nel mondo contro il volere del Creatore (Sap  1,13; 2,24). Il procedere qui diviene più contrastato. La  morte va vinta; tuttavia  la sua sconfitta può avvenire solo in una dimensione posta al di là di un’esistenza in cui si nasce, si cresce, ci si ammala e si muore. Occorre essere rapiti e trasferiti altrove (cfr. Sap 4,1-7; 1Ts 4,16-17). Il sigillo della mortalità si trasforma in tal modo in segno di una non completa signoria di Dio sul proprio creato (cfr. 1 Cor 15,25).

Il tentativo messo in campo dal libro della Sapienza di giustificare la morte giovanile presuppone che essa faccia problema. Lo è, diremmo noi, da un punto di vista sia umano sia religioso. Non è perciò indifferente l’età in cui si muore. A testimoniarlo sono innanzitutto gli episodi di rianimazione di defunti contenuti nell’uno e nell’altro Testamento. È fondamentale porre in evidenza che non si è di fronte ad alcun rapimento, al alcuna trasformazione, i giovani sono semplicemente restituiti alla vita terrena per questo nessuno tra quelli che hanno beneficiato di tali miracoli è sazio di giorni. Su questo fronte non ci sono eccezioni. Pochi sono gli anni del figlio della vedova restituito alla vita da Elia (1 Re 17,22); giovane è il figlio della sunnamita rianimato a fatica dal profeta Eliseo (2 Re 4,32-35); giovinetto il figlio della vedova di Nain che mosse le viscere di misericordia di Gesù (Lc 7,11-17), dodicenne la figlia di Giairo (Mc 5,21-42), ragazzo Eutico ridestato da  Paolo (At 7-11). Si è sempre di fronte a un arco di vita spezzatosi prima di completare il proprio corso e prima di poter dare il proprio contributo a far sì che la vita prosegua sulla terra. In queste situazioni «gli uomini di Dio» (così sono qualificati Elia ed Eliseo) intervengono e  Gesù è mosso a compassione. La biblica benedizione di vedere i figli dei figli non comporta soltanto il morire vecchi; alle sue spalle vi è la convinzione originaria che nel dare la vita il maschio e la femmina siano fatti a immagine e somiglianza di Dio. La loro opera generatrice prolunga sulla terra l’opera del Creatore: «Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”» (Gen 1,27-28). Chi muor giovane non lascia discendenza. Oltre che dei suoi giorni, egli è privato pure della possibilità di mettere in pratica il comando legato alla benedizione di Dio.

Gesù si inscrive in questa tradizione. La sua replica alla morte giovanile non si apparenta né alla risposta (o meglio alla pseudorisposta) che scorge nella morte precoce una punizione per il peccato (cfr. Gb 36,13-14), né sanziona una particolare predilezione divina riservata a chi cessa presto di vedere la luce del sole. Al contrario, egli ridà vita ai giovani defunti che incontra sul suo cammino. In questo quadro d’assieme una particolare rilevanza va attribuita all’episodio della rianimazione della figlia di Giairo. Si tratta di una, non causale, narrazione ad incastro. Gesù è avvisato dal padre che sua figlia è alla fine. Si incammina verso la casa della fanciulla pressato da ogni parte dalla folla. In quel mentre una donna, affetta da dodici anni da perdite di sangue, tocca con fede le frange del mantello di Gesù ed è subito risanata. Nella dimora di Giairo però si fa già lutto. Gesù invita ugualmente il padre ad aver fede affermando che la fanciulla non è morta. Con la sola forza della parola (e non già con gesti e soffi come Elia ed Eliseo) ridà vita alla fanciulla (Mc 5,21-43). L’appello alla fede che salva e la celebrazione della parola risanatrice di Gesù («Talità kum» «Fanciulla, alzati») sono temi portanti dell’episodio; essi però non devono far dimenticare che in queste righe ci si sta confrontando con quell’area (nella Bibbia salvaguardata dal recinto dell’impurità, cfr. per es. Lv 15,19-32; Nm 19,3-11) costituita dal sangue mestruale e dalla morte. La donna da dodici anni aveva perdite, era perciò menomata nella sua capacità generatrici; dal canto suo la fanciulla dodicenne era alle soglie della pubertà. Gesù le si rivolge con un epiteto particolarmente tenero (l’aramaico talità, potrebbe essere tradotto anche con «agnellina») per indicare il suo situarsi all’ingresso di una maturità sessuale che la morte non le avrebbe consentito di  varcare. Bloccando l’irregolare emissione di sangue e ridestando la ragazzina Gesù riattiva il fluire della vita. Rispetto alla fede i protagonisti sono un maschio, Giairo, e una femmina, l’anonima donna; i gratificati dall’azione miracolosa di Gesù sono invece entrambe femmine, le creature in cui riposa più profondamente il segreto della vita.

La fanciulla dodicenne è l’unico esempio della Scrittura in cui viene rianimata una persona di sesso femminile. Il seno della vecchia Sara era come morto eppure ella concepì  (Gen  17,17;  Rm  4,19). Le sue viscere  ripresero vigore, ma ella non fu ridestata dal sonno della morte. Sara era priva di discendenza, non di giorni. Tutti i rianimati di cui parla la Bibbia sono invece giovani privati sia di anni sia di figli. Per tale motivo la loro morte si scontra con le promesse di Dio. L’incrocio tra la vicenda della donna affetta da perdite di sangue che  i medici erano riusciti solo a far stare peggio (Mc 5,25) e  il ritorno alla vita della fanciulla dodicenne testimonia che, biblicamente, non c’è rianimazione senza risanamento. Si è chiamati di nuovo a vivere non già a sopravvivere. Si tratta di una lezione che, per quanto trasferita in un ambito tutto diverso, dovrebbe essere recepita anche nell’era della tecnica. Essa rappresenta un monito di non poco conto per i cultori dell’accanimento terapeutico.

 L’età giovanile dei rianimati conferma, indirettamente, la convinzione stando alla quale la resurrezione si pone su un altro piano rispetto al semplice ritorno alla vita terrena. Nel quarto Vangelo vi è un evento che illustra bene il confronto tra questi due ambiti: la rianimazione-resurrezione di Lazzaro (Gv   11,1-44). L’uomo è malato. Gesù ne è informato, ma dilaziona volutamente la propria venuta perché non vi siano dubbi sul fatto che il suo amico sia effettivamente morto. Nei pressi di Betania gli viene incontro Marta a cui Gesù assicura che suo fratello risorgerà. L’affermazione è interpretata in senso escatologico: «so che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù allora dichiara di essere lui la resurrezione (anastasis) e la vita, perciò chi crede in lui anche se muore vivrà. Poco dopo, nei pressi del sepolcro di Lazzaro, il Maestro incontra Maria che ripete la stessa frase della sorella («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto»). Davanti alla sua commozione e a quella dei suoi amici Gesù si turba e scoppia in pianto. Di fronte a Marta che aveva rivendicato una prospettiva di fede («so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà») il Maestro si presenta come resurrezione, al cospetto della commozione umana anch’egli è preso nelle spire del pianto. Si sarebbe quasi tentati di dire che egli ora scopre l’importanza pure della rianimazione.

Tutta la parte finale della sequenza va letta in correlazione a quanto sarebbe avvenuto la mattina di Pasqua. Per rendersene conto basta confrontare qualche passo. A Betania Gesù ordina di togliere la pietra tombale dell’amico, operazione compiuta con riluttanza visto che il morto è già di quattro giorni. Allora Gesù: «gridò a gran voce: “Lazzaro vieni fuori!”. Il morto uscì, con piedi e mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”» (Gv 11.43-44). Tutt’altro il discorso la mattina di Pasqua: «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro…Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte» (Gv 20, 1-7). Nella prima scena la pietra è spostata da mani umane e Lazzaro è chiamato in vita da una forza che viene dall’esterno. «Il morto uscì», il rianimato non è definito vivente; i lacci della morte lo avvolgono ancora, altri devono scioglierli. La mattina di Pasqua la pietra è già smossa, le bende sono a terra e il sudario è ripiegato. Il Risorto è il vivente che si è liberato dalla stretta della morte. Gesù è la resurrezione. Lazzaro rappresenta una rianimazione che può essere riassorbita nella resurrezione. Tuttavia anche nel «cristologico» vangelo di Giovanni, la commozione e il pianto di Gesù di fronte all’amico morto ci confermano che la scomparsa di una giovane vita è sempre una perdita sia per il cuore di Dio sia  per quello degli uomini.

Piero Stefani

 

 

108 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte II) (16.04.06)ultima modifica: 2006-04-15T15:40:00+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “108 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte II) (16.04.06)

  1. Bellissimo articolo, (probabilmente di un sacerdote cattolico?) ma sarebbe giusto anche ricordare che la tradizione del “muor giovane, ecc.” non si cancella col Vangelo ma continua nella tradizione poetica, p. es. in Petrarca (l’argomentare della Morte quando si presenta a Laura nel “Trionfo della morte”) ecc. ecc.

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