Il pensiero della settimana, 581
Una settimana dopo
Chi ha ascoltato un’omelia domenica scorsa ha colto nell’aria un non lieve imbarazzo; succede così ogni tre anni quando il celebrante si trova a dover spiegare la parabola chiamata di solito «l’amministratore infedele (o disonesto)» (Lc 16,1-8). Il titolo redazionale, ha giustamente notato il monaco di Bose Ludwig Monti,[1] non è appropriato; sarebbe meglio chiamarlo «l’amministratore scaltro». Scegliere la qualifica di «infedele» o «disonesto» è di per sé indice di una precomprensione che ostacola l’intelligenza del testo: «il padrone lodò l’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza» (Lc 16,8). Il motivo della lode è quello di essere stato scaltro.
«Arrampicarsi sugli specchi» è il detto che ben sintetizza la maggior parte dei commenti e delle omelie dedicati a questo brano evangelico. Con le righe che seguiranno non ho certo la pretesa di rendere un sentiero confortevole un testo che è e vuole essere sconcertante. Tuttavia alcune osservazioni, di solito trascurate nelle prediche, possono essere di qualche utilità. La parabola si chiude con una sentenza che costituisce una delle sue chiavi interpretative: «i figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8). A essa seguono tre detti («fatevi amici con la ricchezza disonesta», «chi è fedele nelle cose di poco conto è fedele anche nelle cose importanti», «non potete servire Dio e la ricchezza», un tempo nota con l’evocativo termine ‘mammona’) (Lc 16,9-13). Siamo di fronte a due polarità: una è duale («figli di questo mondo, figli della luce», «Dio e mammona»), l’altra è legata a un ragionamento «a minori ad maius» («chi è fedele nel poco lo è anche nel molto»); quest’ultimo criterio implica, pur sempre, un’analogia. Aut aut e paragonabilità sono procedimenti antitetici; la parabola e i detti si servono però di entrambi i principi, da qui l’atmosfera paradossale da essi suscitata. In che cosa figli della luce devono imitare i figli di questo mondo? Uno degli ostacoli storico-culturali (ma anche spirituali) che impedisce la comprensione del testo è la progressiva estinzione della dimensione duale. Chi parla più di figli di questo mondo e di figli della luce? Tuttavia senza questo aut aut anche la comprensione della parte analogica cade. Non resta perciò che arrampicarsi sugli specchi.
L’amministratore scaltro che fa? Serve mammona? Tutt’altro! Egli si serve di mammona. Egli non pone le ricchezze al di sopra della vita (operazione non così insolita; da sempre c’è chi si rovina la vita per diventare ricco). Al contrario pone la salvaguardia della propria vita al di sopra della ricchezza altrui. Si serve di mammona per farsi degli amici che gli devono qualcosa in contraccambio. Si tratta di un’operazione che ha luogo tra i figli di questo mondo (categoria a cui appartengono non solo l’amministratore e i debitori, ma anche il padrone). L’analogia paradossale erompe già nel primo detto rivolto evidentemente ai figli della luce: «ebbene io vi dico: fatevi amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9). Alla fine del capitolo un’altra parabola (un tempo nota con l’espressione di «ricco epulone») mostrerà, sub contraria specie, chi, incapace di farsi amici con la propria disonesta sovrabbondanza, non sarà accolto nelle dimore eterne dal povero Lazzaro (Lc 16, 19-31).
Nella scena delle tentazioni di Gesù il diavolo mostra tutti i regni della terra. Rispetto a essi egli rivendica la propria signoria e dice che li dà a chi vuole (Lc 4,6-7). Ricchezza e potere sono connotati negativamente dal vangelo, ma sono anche caratteristiche di un mondo entro il quale vivono pure i figli della luce. Anche questi ultimi sono coinvolti nella dimensione della «disonesta ricchezza»; di essa possono servirsi nella misura in cui non la servono. L’analogia con l’amministratore si situa in questo punto. La radicale differenza è che se ne servono a favore di altri che, in questo mondo, non hanno nulla da dare in contraccambio, essi però sono nelle condizioni di accoglierci nelle dimore eterne. Il povero Lazzaro è lì a provarlo. Agostino si avvicina a questa linea interpretativa, tuttavia, scivola un poco nel finale: «Egli provvedeva a una vita che deve finire e tu non vuoi provvedere a quella eterna?» (Agostino, Discorsi 359/A,10). Il paragone qui è portato troppo avanti; infatti l’amministratore scaltro provvede alla propria vita, mentre i figli della luce godranno di un’ospitalità rispetto alla quale non è dato provvedere: non si fanno amici al fine di essere accolti nelle dimore eterne; si fanno amici che gli accoglieranno nelle dimore eterne. Imitazione e dualità, appunto. «I figli di questo mondo verso i loro pari sono infatti più scaltri dei figli della luce» (Lc 1,8); l’analogia non sta nella scaltrezza che è e resta propria dei figli di questo mondo. Lo scaltro sa servirsi a un tempo della ricchezza e degli uomini, mentre il figlio della luce si serve della ricchezza disonesta per servire il prossimo. La prova provata che non si serve del prossimo è che il contraccambio è collocato in una dimensione che sfugge totalmente al nostro controllo («dimore eterne»).
Non è paradossale affermare che una delle ragioni che rendono arduo comprendere la parabola è il fatto che si crede sempre meno nell’aldilà, dimensione nella quale possiamo solo essere accolti senza essere nelle condizioni di provvedervi. Ciò non toglie che, per più versi, il dualismo debba trovare una qualche attenuazione; ciò avviene sia perché il confine tra figli di questo mondo e figli della luce è transitabile nell’una e nell’altra direzione, sia perché l’esperienza dell’accoglienza ha un riscontro anche ora. Non a caso anche l’episodio di Zaccheo è proprio di Luca (Lc 19, 1-9): «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). Disfacendosi della iniqua ricchezza Zaccheo, da figlio di questo mondo, diviene figlio della luce.
Piero Stefani
[1] L. Monti, Le parole dure di Gesù, pp. 89-91, ripreso più ampiamente in Id., «La responsabilità di aderire alla realtà» Esodo 1,2015, pp. 14-18.
propongo una riflessione sulle letture della scorsa domenica: il brano del vangelo di Luca ci offre come esempio un amministratore “disonesto”. Sì, lo chiama proprio così! E’ disonesto eppure Lui lo loda. Vuole forse giustificare le tante “disonestà” che ci affliggono oggi, come del resto pure ieri?
L’amministratore della parabola, accusato di sperperare “gli averi” del padrone, viene chiamato a rendere conto e cerca di trovare una via d’uscita. Nella sua situazione io avrei tentato di ripianare almeno in parte gli ammanchi procurati, perché se il padrone mi chiama a rendere conto, certamente vuole che l’amministrazione sia in pareggio, se non addirittura in attivo.
Invece no, l’amministratore persevera nello spreco, anzi moltiplica il deficit, dimezzando quanto dovuto al suo padrone da parte dei debitori. E viene da lui lodato! Incredibile!
Il profeta Amos aveva ammonito coloro che cercavano il proprio tornaconto “diminuendo l’efa e aumentando il siclo”, cioè falsificando pesi e misure. “Il Signore mai dimenticherà le loro opere”.
Paolo poi raccomanda che “si facciano domande, suppliche, ringraziamenti per tutti gli uomini”. Anche per chi amministra in modo tanto maldestro?
Questa parabola segue immediatamente, senza soluzione di continuità, le tre del capitolo 15, quelle dette della misericordia, su cui abbiamo riflettuto domenica scorsa. Anche lì pare che la dominante stia nello speco: abbandonare 99 pecore per cercarne una sola che si è sperduta; chiamare a far festa tutto il vicinato perché si è ritrovata una sola monetina; offrire un lauto banchetto (quasi… di nozze), per il figlio scapestrato che aveva ricevuto tutto e tutto ha speso. Non c’è senso della misura.
Mi domando: chi mai si comporta così? Qual è l’amministratore che gestisce ciò che gli viene affidato in modo tanto poco accorto? Se ci penso questo amministratore assomiglia molto al figlio che si è allontanato dalla casa del padre per dare tutto, tutta la sua essenza fino a dare la vita. “Uno solo” risponde Paolo “l’uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti”.
E’ lui l’amministratore “infedele” che, non solo dimezza i nostri debiti, ma li cancella del tutto. E’ lui che dobbiamo imitare: usare la ricchezza disonesta per farci degli amici. Del resto dice la Scrittura: “Che cosa avete che non vi sia stato dato?”. Imitiamo l’amministratore, come lui siamo solo gestori di ciò che in realtà non ci appartiene. Il Padrone, a cui nella preghiera chiediamo “rimetti a noi i nostri debiti”, ci “accoglierà nelle dimore eterne”, ci aprirà la sua casa per il banchetto di nozze dell’Agnello.