107 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte I) (09.04.06)

Il pensiero della settimana,  n. 107.

 

Il frammento di Menandro (111 K.-Th) «muor giovane colui che gli dei amano» (hon oi theoi philusin apothnēskei neos), noto soprattutto grazie alla citazione fattane da Leopardi (epigrafe del suo Amore e morte «muor giovane colui ch’al cielo è caro»), è diventato consolatoria cifra laica per la morte giovanile. Il pensiero si trova sparso in molti luoghi. «Quem di dilugunt / adulescens moritur» afferma Plauto (Bacchides, 816). Espressioni analoghe si trovano in detti popolari tedeschi e inglesi, Byron lo ripropone nel suo Il pellegrinaggio del giovane Aroldo. La mesta melodia delle sue corde affascina gli animi pessimisti. Non lo fa a motivo di quanto ci aspetta dopo la morte, regione in cui, per dirla con Rabelais, si estende il regno del «grande forse». La sua forza attrattiva va giudicata  in relazione alla parte sperimentata, non a quella ignota. Il detto sta a significare che la vita non è bella, anzi che essa diventa sempre più amara se si va in là con gli anni. Morire giovani equivale a essere preventivamente risparmiati dal tempo che Qohelet qualifica triste, dai giorni durante i quali si è costretti a dire: «non ci provo alcun gusto» (Qo 11,1).

La sentenza di Menandro è antitetica al grido di esultanza del biblico Ezechia. Scampato da una malattia mortale, il re di Giuda ringrazia Dio. Lo fa come chi «uscito dal fuori del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata» (Inferno I,23-24). Egli inizia il suo inno rivivendo il momento terribile da cui è stato salvato: «a metà della mia vita me ne vado alle porta dello sheol sono privato del resto dei miei giorni» (Is 38,10). Se gli fosse stata sottratta una parte del vivere, sarebbe avvenuta una perdita senza compensazione. In tal cosa si sarebbe stati spogliati e derubati, non graziati. La vita è il nostro unico bene. Chi ne è privo sprofonda in un regno umbratile nel quale non sussistono relazioni né con Dio né con gli uomini: «quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà» (Is 38,18). Si sia giovani o vecchi è meglio vivere che morire.

Le parole di Ezechia si appoggiano alla speranza in un Dio fedele alla proprie creature. La positività del vivere può essere formulata però anche in modo assolutamente laico. L’opzione  è fatta propria da chi confida che, indipendentemente dall’età in cui ci si trova, la vita possa essere gestita in modo soddisfacente. Ne fornisce un bell’esempio Epicuro. Nella sua  la Lettera a Meneceo il filosofo ellenista scrive: «E chi esorta il giovane a vivere bene, ed il vecchio a concludere bene la sua vicenda mortale, è uno sciocco, non solo per quanto c’è di degno da accettare dalla vita, ma anche perché una sola è la retta preparazione a ben vivere e a ben morire. Ancor peggio è quel tale che dice:  “non nascere è ottima cosa, / ma, se nati, al più presto passare le porte dell’Ade” ». I versi citati da Epicuro sono tratti dalla prima Elegia di Teognide di Megara (vv. 425-427). Essi, in realtà, sono volti ad attestare non l’impossibile beatitudine dei non nati, bensì l’effettiva sventura dei viventi. A tal proposito Epicuro se la cava in modo sbrigativo: se si è davvero convinti  che le cose stiano in questi termini, perché non si agisce di conseguenza togliendosi la vita? La presenza del lamento scalza quella della decisione. Chi avverte prossimi i versi di Teognide è semplicemente una persona priva dell’arte di ben vivere. Di fronte a questa incapacità, il consiglio epicureo sta nell’indicare la concreta possibilità di  gestire in modo soddisfacente la propria vita. Ciò vale tanto se si è giovani, quanto se si è vecchi. Inutile aggiungere che la nostra epoca appare sensibilissima ai suadenti  rintocchi di questa campana. Ciò avviene anche perché negli animi di molti il tema della giustizia ha perso di centralità.

Il pensiero di Teognide, in maniera ancor più esplicita lo si trova il Qohelet. Questi  passi, però, sono alimentati dalla convinzione aggiuntiva che l’ingiustizia sia fonte primaria di infelicità: «Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli… Allora ho proclamato più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita, ma ancora più felici degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvagie che si commettono sotto il sole» (Qo 4,1-2). La felicità individuale non è più l’unico parametro.

In periodo ellenistico il testo ebraico (scritto però in greco) più efficace per misurare affinità e distanze rispetto al detto di Menandro si trova nel deuterocanonico libro della Sapienza. In esso la riscrittura delle ragioni per cui può dirsi buona la morte giovanile fanno i conti con il presupposto biblico in base al quale una lunga vita è una benedizione che spetta al giusto. Alla fine dei giorni l’integro Giobbe muore, come i patriarchi, vecchio e sazio di vita (cfr. Gb  42,17; Gen 25,8; 35,29). Su questo sfondo sembra impossibile trovare ragioni plausibili per affermare che è buona cosa varcare presto le soglie della morte. Il libro della Sapienza lo sa; propone perciò di rovesciare  i fattori. Il confronto resta ancorato alla vita e alla giustizia; tuttavia i due termini sono assunti in senso inverso: chi è diventato giusto ha reso completo il suo vivere. Egli dunque è maturo per morire.

I primi cinque capitoli della Sapienza si reggono su un duro confronto tra il giusto e l’empio. L’affermazione dell’immortalità è forgiata in questo crogiolo. Il carpe diem non diviene sigillo dell’empietà a motivo dell’edonismo. Il motivo è un altro: questo modo di agire  sembra garantire in modo definitivo il trionfo dell’ingiustizia. Nulla vi è di più caratteristico dei primi capitoli della Sapienza dell’intreccio tra godimento e sopraffazione. In se stesso non si tratta di un esito inevitabile; tuttavia la logica del libro lo richiede: «Dicono fra loro ragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diverrà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera… Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile… coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza… Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio. La forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile… Tendiamo insidie al giusto…Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà. lo libererà dai mani degli avversari”» (Sap 2,1-18).

Per comprendere la denuncia contenuta nel libro della Sapienza è decisivo tener sempre presente questo itinerario a tre tappe che parte dalla melanconica constatazione della umana caducità, transita nell’invito a gioire e sfocia nella sopraffazione. Se non c’è immortalità tutto è lecito; nulla allora è capace di smentire che la giustizia non coincida con la forza. Il prevalere della morte diviene antitesi alla signoria di Dio: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 2,24; cfr. Sap. 1,13).

In un brano (inserito nella rubrica delle letture previste per le messi funebri cattoliche) la morte giovanile è prospettata come segno della vicinanza divina per via di una giustizia già raggiunta. Essa, pienamente custodita presso Dio, è però continuamente insidiata ed esposta se  collocata nell’orizzonte terrestre: «Il giusto anche se muore prematuramente, troverà riposo. Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; e un’età senile è una vita senza macchia. Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e poiché viveva tra i peccatori, fu trasferito. Fu rapito perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l’inganno non ne traviasse l’animo… Giunto in breve alla perfezione, ha compiuto una lunga carriera. La sua anima fu gradita al Signore; perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio» (Sap 4,7-14).

La nota pessimistica su questa vita resta. L’esistenza del giusto è continuamente minacciata dall’esterno e dall’interno; la sua stessa fedeltà può cedere. Bisogna essere messi in salvo da un «pelago periglioso», vale a dire dal mondo in cui spadroneggiano i prepotenti.  A essere buona non è quindi la morte giovanile, ma la morte del giusto. Con un linguaggio che richiama la tradizione enochica (cfr. Gen 5,23), il giusto deve essere trasferito e rapito come Elia (2 Re 2,11). In definitiva l’immortalità appare l’unica risposta inventata da Dio per dar senso a un mondo dominato da quanto non ha creato: «… Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né  gli inferi regnano sulla terra perché la giustizia è immortale» (Sap 1,1-14). In altre parole, la morte non è padrona della terra solo se c’è un aldilà in cui  la sorte dei giusti differisca da quella degli empi.

Piero Stefani

107 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte I) (09.04.06)ultima modifica: 2006-04-08T15:45:00+02:00da piero-stefani
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3 pensieri su “107 – Muor giovane chi agli dei è caro (parte I) (09.04.06)

  1. Non credo che il “carpe diem” presupponga sempre i tre passaggi: constatazione dell’infelicità dell’esistenza; invito a godere finché è possibile; sfruttamento di innocenti per il proprio godimento. Il male altrui è causa d’infelicità per chi lo compie e questo anche, anzi direi soprattutto, in un orizzonte laico. Si può cercare di godere la vita senza far male al prossimo, anzi facendo del bene, perché il dolore è destino comune agli esseri umani e dovrebbe affratellarli non gettarli come belve gli uni contro gli altri. Il compito della cultura e della conoscenza razionale è questo: cercare un equilibrio tra la ricerca della propria felicità e quella degli altri. Qualcuno ha detto ama il prossimo tuo come te stesso. O no?

  2. Da buon cristiano, il sig. Piero Stefani, a distanza di 2400 anni continua ancora a denigrare e calunniare Epicuro per aver risolto la questione etica in senso squisitamente laico – senza ecatologismi e soterianesimi – e divenendo così, suo malgrado, il peggior pericolo per le religioni (superstizioni) rivelate. Ma su, non si sente un po’ sciocco nel 2013 ad infangare ancora l’epicureismo liquidandolo come sempliciotto e crasso edonismo? Un po’ di rispetto per le altrui intelligenze e conoscenze non sarebbe sgradito.
    A. Maiorino

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