249 – Alle querce di Mamre (10.05.09)

Il pensiero della settimana, n. 249

 

  Si legge nella lettera agli Ebrei: «Non dimenticate la philoxenia; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). L’amore per lo straniero (philoxenia) e l’ospitalità fanno tutt’uno. Il riferimento del passo neotestamentario è inequivocabile. Si tratta dell’ospitalità di Abramo (cf. Gen 18,1-16). Eppure il nome del patriarca non risuona. Al suo posto c’è un apparentemente anonimo «qualcuno». Non solo, si aggiunge anche un «senza saperlo». I due termini si rimandano reciprocamente. Secondo il Talmud Abramo credeva che coloro che transitavano per via «fossero semplici arabi del deserto» (b. Qiddushin  32b).

Le regole vere dell’ospitalità sono queste, «qualcuno» che accoglie «qualcun altro». Si è davanti a un atto di fiducia  privo di garanzie sociali. Esso si apre da un lato al rischio e dall’altro al manifestarsi di una relazione che può diventare rivelazione. La parabola dell’ospitalità lungo i secoli va dal divieto di chiedere il nome all’ospite fino al biglietto da visita borghese, a motivo del quale l’annuncio delle proprie generalità precede l’incontro tra persone. La paura ha preso il posto dell’accettazione di un  rischio aperto su due fronti, uno positivo e l’altro negativo. Anche un tempo poteva avvenire di essere depredati, ma per converso poteva capitare pure di ospitare angeli. La lettera agli Ebrei non cita il nome di Abramo. Da ciò vorremmo dedurre che l’ospitalità più autentica ha luogo quando qualcuno non sa il nome di chi accoglie e chi domanda non sa il nome di chi lo deve ospitare. Ciò avveniva, lo ricorda Ivan Illich, quando l’ospitalità non era istituzionalizzata; quando in ogni casa cristiana c’era un tavolo e un letto lasciati vuoti per chi poteva apparire. 

La situazione appena descritta pare lontanissima; eppure, a guardarci bene, non è poi tanto remota. Anzi essa fa la sua comparsa in molti angoli di strada e su tanti gradini di chiese. Quando qualcuno chiede l’elemosina, una mano anonima si tende verso un’altra mano senza nome. Un piccolo rischio vi è anche in quelle circostanze. Si può sbagliare, si può dare un minimo contributo a un’organizzazione sfruttatrice, si può essere ingannati da un falso bisogno. Tuttavia in questa virtualità anonima è racchiusa, in germe, la possibilità, quasi mai colta, di uno svelamento reciproco nel quale offrire e chiedere un nome  riveste il denaro di abiti ospitali.

Un letto lasciato vuoto. Di norma è la pienezza a essere indicata come segno positivo. L’augurio che si fa all’altro è che la sua vita sia piena. Tuttavia è soltanto il vuoto che può accogliere. Quando vi è il pieno non c’è spazio per altro. Il  cartello «Full» posto su un albergo, non è una bella vista  per il potenziale cliente privo di prenotazione. «Perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7) si dice a proposito di Giuseppe e Maria. L’ospitalità ha bisogno di porte aperte. Nella tradizione rabbinica, parlando di Giobbe e dei suoi meriti («All’aperto non passava   la notte il forestiero e al viandante aprivo le mie porte» Gb 31,32), si afferma che la sua casa aveva quattro entrare, ognuna aperta verso uno punto cardinale affinché i viandanti la vedessero qualunque fosse la loro provenienza. In realtà si tratta di una trasposizione: prima le stesse caratteristiche erano state dette per Abramo. Tuttavia tra le due figure bibliche la differenza è grande. Per Giobbe si parla di una casa, per Abramo di una tenda. Uno era stanziale, l’altro nomade. La peculiarità di quanto avvenne alle querce di Mamre si trova nel fatto che Abramo stava all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno, quando meno probabile era il passaggio di viandanti. La mobile provvisorietà della tenda è aperta ad accogliere chi passa. Solo chi in proprio si sente forestiero e pellegrino è capace di dare davvero ospitalità a chiunque.

Secondo i commenti ebraici, Abramo non soltanto non era stanziale, era anche sofferente. Nonostante il suo corpo patisse, egli era là sulla soglia rivolto ad accogliere sconosciuti viandanti. Quale la causa del suo dolore?  Per saperlo bisogna seguire la via in base alla quale non c’è occasionalità  nella successione dei capitoli biblici.  Prima dell’episodio di Mamre vi è il brano in cui si parla della circoncisione a cui si sottopose Abramo assieme a tutti i maschi della sua casa (Gen 17). La pratica, se compiuta su adulti,  provoca febbre e acuti dolori. Il patriarca si trovava in quelle condizioni. Soffriva non per una malattia, ma per aver avuto impresso nella propria carne il segno dell’alleanza. Quel dolore lo spingeva verso gli altri.  Fu allora che Dio lo venne a visitare, sotto l’aspetto di viandanti arabi e di angeli (cfr. b. Sotah  14a). Il dolore dell’alleanza obbliga il Signore e Abramo a  una ospitalità reciproca.

Piero Stefani

 

 

 

 

249 – Alle querce di Mamre (10.05.09)ultima modifica: 2009-05-09T10:41:00+02:00da piero-stefani
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