349. Siamo tutti baristi (17.07.2011)

Pensiero n. 349               

 

Era sicuro – ma fino a che punto si può essere certi delle proprie sicurezze? – del suo ricordo. Era l’epoca, ormai piuttosto remota, degli elzeviri che comparivano su terze pagine che nei giornali venivano effettivamente dopo le prime e le seconde. Sul Corriere della sera scriveva, allora, un intellettuale raffinato e coltissimo, Elémire Zolla. Antitesi perfetta del critico urlante, parlava con voce soave e scriveva rimandando a tradizioni antiche dispiegatesi in ogni angolo del pianeta, sorrette e rivitalizzante da citazioni di poeti e saggisti a noi più prossimi, tutti però accomunati dalla cifra di algida eleganza. Non poteva garantire che fosse un elzeviro però era certo – ma fino a che punto si può essere sicuri delle proprie certezze? – di aver letto di un aneddoto non più pensabile ai nostri giorni. Zolla era entrato in un bar e aveva ascoltato della musica sguaiata in sottofondo; allora non era ancora diventata la presenza implacabile e omnipervasiva propria del nostro oggi. Il senso di repulsione lo invitò a rivolgersi – si suppone soavemente – al barista per chiedergli come riuscisse a sopportare quel rumore tutto il giorno. Al che si sentì rispondere: «Ma sa, non lo sento più; ci sono abituato».

Zolla prese l’occasione per deprecare la “perdita dei sensi” dell’uomo contemporaneo non più in grado di coordinare vista, udito, tatto, olfatto e forse persino il gusto, ponendoli sotto il primato della contemplazione. Altrove aveva scritto meraviglie del rosario per il fatto che, mentre si emettono suoni e si guardano immagini sacre, il tatto è chiamato perennemente in causa attraverso l’atto di avvertire sotto i polpastrelli la solidità dei grani (guai a ritenere lo sgranare un semplice promemoria per contare le decine). Il povero barista divenne così, suo malgrado, antitesi perfetta del maestro mistico.

Simone era familiare con treni e stazioni. Quando per sei o sette giorni non vedeva i binari e non saliva in vettura – come si sarebbe detto al tempo che fu – la situazione gli pareva anomala, non spiacevole ma, comunque, insolita. Era perciò abituato quasi a tutto. L’elenco delle stranezze, oltre che dei disservizi, sembrava aver esaurito ogni possibile variante.

Con il passare del tempo aveva costatato molti mutamenti piccoli e grandi. Tra essi ve ne era uno percepito dall’orecchio; gli annunci ormai sono tutti standardizzati, emessi da voci artificiali computerizzate. Anche su questo fronte la varietà è stata vinta dall’uniformità. Da qualunque parte d’Italia ci si trovi, voci e accenti sono gli stessi. Nella sua memoria c’erano però ancora alcuni timbri, in particolare uno della stazione di Bologna che, a causa della pronuncia e del modo di parlare, aveva soprannominato “tagliatella”. Solo nella città delle due Torri si sarebbe potuto ascoltare una voce del genere, così come, per risalire ancor più indietro nel tempo, solo a Bologna si sarebbe potuto acquistare il celebrato “cestino da viaggio” che conteneva le “mitiche” (come le si qualificherebbe oggi) lasagne. Non è più così e, francamente, ci sono perdite peggiori.

L’elettronica è chiamata a garantire l’efficienza. Lo fa quando tutto va bene; non di rado, però, avvengono intoppi tali da far rimpiangere la precedente meccanica. Adesso che gli annunci ferroviari sono computerizzati è del tutto consueto ascoltare che un treno è in partenza quando è già partito o che è in arrivo quando è già arrivato. Simone era quasi sicuro – ma fino a che punto si può essere certi delle proprie sicurezze? – di aver sentito di tutto e di più. Fu confutato in un caldo pomeriggio di luglio. Era da poco giunto in stazione, quando la solita voce artificiale scandì questo annuncio: «Attenzione, treno in transito sul piazzale esterno della stazione, allontanarsi dalla linea gialla». Restò un attimo trasecolato, poi subito dopo venne ripetuta la stessa surreale sequenza di parole (solo vari minuti dopo, si sarebbe  chiarito che si trattava del «binario tre»). Si mise a sorridere divertito, la vita ogni tanto riserva piccole, ilari, gemme. Qui sorse però un altro e più inquieto stupore: si guardò attorno e scoprì che tutte le altre facce a lui visibili – non erano neppure poche – non avevano per nulla mutato espressione, erano per lo più annoiate o sbuffanti o placidamente ciarliere. Non vide nessun riso, non colse alcun commento.

Simone sapeva che non tutti erano, al pari di lui, familiari con il fatto che «sul piazzale esterno della stazione» partono i «pullman sostitutivi»; tuttavia gli era impossibile immaginare che a chiunque non dovesse suonare buffo l’annuncio del passaggio di un treno «sul piazzale esterno della stazione». Dedusse perciò che nessuno dei presenti avesse udito l’annuncio. «Il costante rumore di sottofondo che accompagna le nostre giornate – decretò Simone – ci ha resi tutti baristi». Nessuno ascolta più né per sorridere, né per aiutare e, in questo secondo caso, c’è davvero poco da ridere.

Piero Stefani

 

349. Siamo tutti baristi (17.07.2011)ultima modifica: 2011-07-16T06:00:00+02:00da piero-stefani
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3 pensieri su “349. Siamo tutti baristi (17.07.2011)

  1. Caro Piero, ho scrtto un breve ricordo un po’ scherzoso su Elémire Zolla, che ho conosciuto, “attaccandolo” per errore al tuo Pensiero n. 348. Se ritieni di volerlo leggere, recuperalo lì.
    Sandra Chiappini

  2. Caro Piero, mi ricollego al discorso Zolla e alla tua gentile risposta. certo, la circostanza doveva essere proprio quella. Ricordo benissimo Rodolfo Quadrelli, che a quel tempo frequentava la mia casa, e so del triste epilogo della sua vita. Di Quadrelli ricordo la lucidità e la grande intelligenza, anche, per certi aspetti, una qualche sensazione di freddezza nell’approccio alle persone da lui forse giudicate non sufficientemente “cerebrali”. Ma la giovane età può avermi sviato,allora, dalla corretta lettura. Pensa che mi pare tutt’ora di avvertire il profumo del tabacco della sua pipa. Ricordo anche le discussioni fra lui e mia madre circa temi simili a quelli su cui si era misurata con Zolla. La mamma esplodeva letteralmente di indignazione di fronte alle ingiustizie di genere, anche le più sottili, ma lui non dimostrava particolare entusiasmo sull’argomento. O, per lo meno, alla mamma così pareva: lo avrebbe voluto complice e più vibrante sul tema. Ovviamente io facevo fronte con lei. Mio padre cercava di mediare, interpretando il ruolo che gli era più congeniale, ma in qual caso con scarso successo. Scusa la banalità dell’aneddoto, ma mi fa particolarmente piacere ricordare, anche con leggerezza, personaggi e fatti di quegli anni che mi sono tanto cari. Buona montagna.
    Sandra

  3. La vita contemplativa è un lusso che bisogna potersi permettere. E chi, come il barista, invece di contemplare manda avanti la baracca ben merita gli immortali versi di Luzi:

    Sia grazia essere qui,
    nel giusto della vita,
    nell’opera del mondo. Sia così.

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