350 – Nel sofferente nome di Abramo

Il pensiero della settimana  n.350

  Hebron è una città ininterrottamente abitata da tempo immemorabile. È legata, più di ogni altra, alla memoria di Abramo e, in subordine, anche di Isacco, Rebecca, Giacobbe e Lia. Nella sommossa del 1929 vi furono massacrati 67 ebrei e fu distrutto il loro quartiere. Gli ebrei vi ritornarono dopo la Guerra dei sei giorni (1967). Attualmente nella sua area metropolitana abitano circa 160.000 arabi palestinesi, mentre al suo centro si sono installati 700 coloni israeliani; altri 7000 risiedono nella contigua Qiryat Arba; intorno alla città vi sono un’altra ventina di insediamenti. Secondo gli accordi risalenti al 1997,  l’80% della città (Hebron 1) è palestinese, il restante 20% (Hebron 2) è sotto diretto controllo israeliano. Per sorvegliare il rispetto dei patti è all’opera una forma di controllo internazionale (conosciuto con la sigla TIPH; Temporary International Presence in Hebron).

 Nel corso di un viaggio organizzato da Biblia in Israele e Palestina, sabato 20 agosto, si è effettuato un primo tentativo di giungere al centro di Hebron, in arabo al-Khalil, vale a dire «l’amico», sottinteso di Dio, riferito ad Abramo (cfr. Corano 4,125). La via prescelta passa per un insediamento israeliano, tuttavia il passaggio risulta  bloccato a causa dello shabbat. Per raggiungere la Moschea di Abramo che, si dice, sorga sopra la grotta (o caverna) di  Macpela acquistata da Abramo per seppellirvi Sara (in seguito vi saranno sepolti lui stesso,  Isacco, Rebecca Giacobbe e Lia) (cfr. Gen 23), si deve perciò percorrere un lungo giro ed entrare per la città araba. Subito si coglie la condizione di degrado della città: molte officine di auto, malandate le une e le altre; polverosi laboratori per lavorare la pietra; piccoli commerci. Si giunge a una sbarra con sopra del filo spinato, anch’essa malridotta. Si attendono le guide palestinesi.

Appena scesi si è circondati da bambini e ragazzetti che chiedono soldi e offrono braccialetti o portachiavi. È l’inizio di un procedere ininterrotto: ogni sosta dalla parte araba è accompagnata da una serie ossessionante di richieste, di offerte di insignificanti prodotti in cambio di qualche euro. È uno stillicidio continuo. I posti di blocco sembrano funzionali più al misero commercio che alla sicurezza. Ci si avvicina alla meta ma si è respinti; dopo lunghe trattative si apre la possibilità di tornarci la mattina seguente. Una delle cause del contrattempo è che tra i territori amministrati dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e quelli israeliani, a volte separati solo da poche centinaia di metri,  vi è  un’ora di differenza. Ciò vale, però, solo per il mese di ramadan: nei territori si deve far giungere prima la sera.

Anche giocando sulla differenza di orario, alla mattina si riesce a giungere presto alla Moschea di Abramo che, per circa due terzi della sua superficie, è in realtà una sinagoga. Questa volta è possibile passare per l’insediamento israeliano vigilato da giovani coloni armati. Il controllo della sicurezza del luogo sacro alle due religioni è, ovviamente, israeliano. Vi sono giovani soldati dalla pelle scura (con ogni probabilità  falascià, ebrei etiopi), soldatesse bionde, metal detector. Gli spazi sono angusti, spesso sudici. La visita  inizia dalla parte musulmana. Si accede al cuore dell’edificio attraverso una  prima sala adibita a moschea, attraversando  una specie di corridoio privo di tappeti. Vi sono  due o tre operai al lavoro che azionano un trapano, oltre a loro solo un altro paio di persone: è mattino presto di un giorno di ramadan. Di lì si accede alla moschea vera e propria. Là ci sono i cenotafi di Isacco e Rebecca, il nirab (la nicchia che indica la direzione della Mecca) e l’antico minbar (il pulpito da cui si pronuncia l’omelia del venerdì, khutba). Accanto ad essi un tabellone elettronico (tipo quelli che vi sono nelle stazioni o negli aeroporti)  indica le ore della preghiera. Al lato opposto della sala vi è la botola che si apre sulle grotte dei patriarchi. L’architettura testimonia, in modo evidente, che l’edificio era una chiesa crociata.

Il luogo che dovrebbe essere il più santo tra tutti, vale a dire quello da cui, attraverso  una grata, si vede la tomba di Abramo, non è nella moschea ma è una stanza attigua che dall’aspetto richiama una specie di sacrestia scalcinata. Vicino alla grata vi è un lampada moderna con scritte in ebraico capovolte: il sopra è andato sotto. La coltre che copre il sarcofago, di tessuto verde e piena di scritte, è palesemente impolverata. La grata è a destra, mentre, sul lato opposto all’ingresso della stanza, vi è una serie di porte scorrevoli, chiuse. Non si vedono catenacci né lucchetti.

Per andare dalla parte ebraica bisogna uscire di nuovo, entrare dalla parte israeliana, scendere qualche decina di metri entrare in un edificio di nuova costruzione e subire un altro controllo. All’interno dell’edificio dal lato ebraico si cominciano subito a vedere parecchi ragazzotti ultraortodossi con tefillin (filatteri) e libri di preghiera. Lo spazio è suddiviso tra un bet ha-midrash («casa di studio») e una sinagoga costruita con un tetto provvisorio, tubi metallici ricoperti da teli, sopra un cortile. Dopo un lungo giro si giunge esattamente a una spanna da dove si era prima dall’altra parte delle porte scorrevoli: qui campeggiano i lucchetti. Le chiavi sono in mano israeliana. Per undici giorni all’anno, quelli delle maggiori feste delle due comunità, l’intera area è solo ebraica o solo musulmana. Tutto poi deve essere rimesso a posto esattamente come era prima.

Dalla finestrella con grate posta dal lato ebraico si vede la parte frontale del sarcofago di Abramo, avinu («nostro padre»), come si specifica subito con una scritta in parte ebraica. Accanto alla finestrella una porta conduce a una piccola sinagoga tappezzata di scritte tratte dal Corano. Dopo il 1994, l’anno in cui il colono israeliano di origine americana Baruch Goldstein uccise, nel giorno della festa di Purim,  ventinove musulmani in preghiera (ferendone altri 125), si sono rafforzate le delimitazioni poste tra ebrei e musulmani: la parte ebraica si è estesa per separarsi.  La stessa logica del muro di separazione di 700 km che cinge i territori occupati e amplia i confini israeliani rispetto a quelli della linea verde (quella del cessate il fuoco del 1967) è stata applicata nell’angusto spazio di questa moschea-sinagoga. Separarsi per vivere affianco gli uni agli altri senza convivere.

Colpisce la marginalità complessiva di questo luogo fondamentale dedicato ad Abramo. Spazi piccoli e sofferenti. La retorica delle tre religioni abramiche che troverebbero nel patriarca il proprio riferimento comune, qui va soggetta a una specie di confutazione visiva. Ebrei, cristiani e musulmani sono tra loro lontanissimi. La difficile condizione in cui vive, fa sì che Hebron sia esclusa dai grandi flussi dei pellegrinaggi. Segni di decadenza e di trascuratezza sono presenti nell’edificio un po’ ovunque, anche se più accentuatamente nella parte musulmana. Sono potenti i racconti, sono miseri i luoghi. In questa sproporzione si coglie un sigillo di verità.

Piero Stefani

 

350 – Nel sofferente nome di Abramoultima modifica: 2011-09-03T10:05:51+02:00da piero-stefani
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