322. Parrocchie di periferia

Il pensiero della settimana, n. 322 

 

«Parrocchia» e «parroco» sono parole comuni che tutti conoscono, eppure nella loro grafia conservano qualcosa di difficile, nulla a che vedere con «casa», «pane», «via». L’etimo greco ne denuncia l’origine dotta. Il bimbo che dice «vado in parrocchia» troverebbe spesso qualche difficoltà a scrivere in modo corretto quel nome.

Nel cuore della parola «parrocchia» c’è oikos (casa), ma limitato da para, termine che in greco ha vari significati, il primo dei quali è «presso», «accanto». Si potrebbe ipotizzare perciò che la parrocchia è la «casa accanto alle altre case». In effetti in greco paroikos indica «chi abita accanto», il «vicino», il «confinante». Né si va lontano dal vero nell’affermare che, spesso, la parrocchia raggiunge il massimo delle sue potenzialità quando diventa casa di chi non ce l’ha (nel senso più vario dell’espressione). Oppure diviene la «seconda casa» di chi, nella propria, soffre di qualche disagio; ed è per questo che è stata, per tanto tempo, un luogo di formazione degli adolescenti che vivono la loro difficile (per sé e per i genitori) età di passaggio.

Parokia significa anche soggiorno in un paese straniero, peregrinazione. Dietro l’uso cristiano della parola c’è questa accezione, non quella di essere vicini di casa. Il principale riferimento neotestamentario, in tal senso, è contenuto nella prima lettera di Pietro (1Pt 1,17; cfr. 1 Pt 2,11). Là vi è l’invito a essere come stranieri e pellegrini in questo mondo. La parrocchia, lungi dall’indicare una stabile dimora, diviene immagine dell’esistenza pellegrinante della comunità  dei credenti nel mondo.

Nel «regime di cristianità» prevalse però la staticità di essere un punto di riferimento territoriale. Questa accezione è ancora espressa dal diritto canonico in base al quale « La parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore. Spetta unicamente al Vescovo diocesano erigere, sopprimere o modificare le parrocchie; egli non le eriga, non le sopprima e non le modifichi in modo rilevante senza aver sentito il consiglio presbiterale».

Nell’ordine dei fatti la varietà è molta. La scarsezza del clero, unita alla densità dei paesi che costellano l’Italia rendono sempre più numerose le parrocchie prive di parroco. A essere pellegrinanti sono ora i presbiteri che corrono da una parrocchia all’altra; l’automobile è, perciò, diventata lo strumento pastorale per eccellenza. Mentre faticosamente – e non di rado con poca inventiva e ancor meno coraggio – si cercano forme di coinvolgimento laicale nella gestione di quello che, per secoli, è stato il capillare baluardo della cristianità clericale.

Specie nelle periferie della città le parrocchie divengono «porti di mare» che accolgono navi e imbarcazioni il più delle volte malridotte. In effetti, fuor di metafora, si tratta di persone spesso giunte in Italia, a rischio della vita, su «carrette del mare». Questo tipo di parrocchie si presenta sempre più paragonabile alla tenda di Abramo che da viandante accolse viandanti (cfr. Gen 18,1-16). La condizione di tenda riferita alla parrocchia – che pure è a tutti gli effetti ente giuridico – non sta nella sua mobilità territoriale. Anzi, essa è ben fissa. Si trova invece nel fatto che, per accogliere sbandati, si è costretti, in una certa misura, a essere a propria volta tali, pur cercando di evitarlo. Sempre più di frequente, certe parrocchie sono divenute varianti contemporanee, prive però di garanzie riconosciute, degli antichi luoghi dotati di diritto di asilo.

A Ferrara la parrocchia (e l’associazione a essa collegata, «Viale K.») che più rappresenta questa frontiera è quella di S. Agostino. Il suo storico parroco don Domenico Bedin ha  avuto occasione di scrivere sulla rubrica (dal significativo titolo di «Viandanti») tenuta tra il 2006 al 2008 sul settimanale diocesano[1] queste parole riferite a Liù, il cinese: «Essendo clandestino, come spesso accade, nessun Servizio di occupava di lui e le forze dell’ordine chiudevano un occhio circa la sua presenza irregolare nell’Associazione. Quante volte mi capita di infrangere la legge (di andare oltre la legge), per mettere in pratica il Vangelo. Rischiando, si naviga a vista tra  Scilla e Cariddi, spesso soli». Chi si espone è davvero esposto su molti fronti interni (e anche interiori) ed esterni.

Don Domenico, non c’è da stupirsi, ha subito spesso critiche di varia natura: aprirsi all’accoglienza infrange regole scritte e non scritte, disturba le consuetudini, snerva le tempre psicologiche più salde. Quando fu vittima di critiche particolarmente ingenerose, Benci (uno dei suoi «sbandati») trovò, allora, le parole più giuste: «non ti preoccupare, perché anche chi ti critica, se avesse veramente bisogno, verrebbe da te». Oggi, forse, quelle parole non basterebbero più.

Don Domenico di recente ha preso congedo dalla parrocchia, a quanto è stato dichiarato starà lontano almeno un anno. Tutti pensano che sarà per sempre. Si è allontanato? È stato allontanato? Se ne parla molto, ci sono interventi sui giornali locali laici. Ma, almeno fino a oggi, non c’è stata alcuna chiara e limpida comunicazione ufficiale da parte della diocesi, alcuna affettuosa e pubblica espressione di solidarietà da parte dei suoi confratelli. Quando si cerca di ottenere informazioni ci si trova di fronte a un muro di riservatezza, che è, in realtà, reticenza (per alcuni anche peggio). Il clima clericale che contraddistingue il governo della diocesi di Ferrara-Comacchio è sollecito nella apologetica e nell’autocelebrazione, ma restio alla franchezza. È inevitabile, perciò, che corrano voci, su questo e altri casi (si vocifera di preoccupazioni vescovili per casi di omosessualità tra il clero, di abusi sui minori tenuti coperti, di figli di preti sparsi per il mondo, di affari di vario tipo, ecc.). Vorremmo sapere e siamo tenuti all’oscuro. Questa puntata del pensiero si è così trasformata in una specie di messaggio in bottiglia che cerca di comunicare a don Domenico che le parole di Benci sono ancora  le nostre.

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

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[1] I testi ora sono stati raccolti in   Viandanti. Racconti, Domenico Bedin, Scene e controscene, Massimo Manservigi, © Enti Botues “Gjergj Fishta”, 2009, Lezhë, Albania 2009, s.i.p.

322. Parrocchie di periferiaultima modifica: 2011-01-08T12:49:31+01:00da piero-stefani
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