320. Il miele del tempo condiviso

Il pensiero della settimana n. 320

 

Riflettere sul tempo è, per la mente umana, l’impresa più ardua. Tutti ricordano la frase di Agostino: se non mi chiedi che cos’è il tempo lo so, se me lo chiedi non lo so più. Molti sono i paradossi  legati agli infiniti risvolti della dimensione temporale. Tra essi vi è anche questo: il tempo ci mangia, ma lo si può anche donare.

Tolstoj nelle Confessioni ricorda una favola orientale. In essa si parla di una persona inseguita da una belva feroce. L’uomo si rifugia in un pozzo senz’acqua in fondo al quale vi è un drago dalle fauci spalancate. Il viandante se esce sarà sbranato, se cade sarà divorato. Egli si aggrappa perciò ai rami di un cespuglio cresciuto sulle pareti.  Tuttavia ben presto si accorge che il ramo a cui è appeso è mangiato da due topi, uno bianco e uno nero. La sua fine è dunque segnata. Ciò non toglie che, mentre è in quelle disperate condizioni, veda del miele sulle foglie dell’arbusto e allunghi la lingua per gustarne qualche stilla.

Il trascorrere dei giorni e delle notti (i due topi) ci condurrà inevitabilmente a precipitare nelle fauci del drago – a «cascà nella gola de la morte» come direbbe Gioachino Belli. Tuttavia nel frattempo ci è dato di gustare, precariamente, qualche dolcezza. L’opzione più facile è coniugarla in modo edonistico. È la logica del «carpe diem»: godiamo perché in un imprecisato domani c’è la certezza di cadere nel fondo. Vi è però anche un’altra maniera di leccare il miele. È la scelta etica di condividere il proprio tempo, cioè la propria precarietà, con qualcun altro. In relazione ai rapporti interumani, Angelo Casati ha scritto che se qualcuno «ti prende un po’ di tempo, lascialo come se gli appartenesse, senza che senta l’obbligo di ringraziare; gli appartiene, è cosa sua». Lo è in virtù del comune essere appesi a quel fragile ramo. L’etica non è altro che questo: vivere in conformità alla condizione umana che ci accomuna; mentre il sopruso consiste nel vivere soggettivamente in difformità con quanto oggettivamente ci uguaglia.

Scrive Paolo ai Galati che quando «venne la pienezza del tempo (to plēroma tou chronou)» Dio inviò il Figlio suo nato da donna (Gal 4,4). Il senso teologico della frase fu sigillato una volta per tutte dal commento propostone da Lutero. Egli disse che non fu la pienezza del tempo a far giungere il Figlio; al contrario, fu l’invio del Figlio a rendere pieno il tempo. Possiamo, tuttavia, tentare di aggiungere qualche altra parola. Paolo qui, per dire «tempo», fa ricorso al termine  «chronos», vale a dire usa la parola che si riferisce al tempo misurabile e ripetitivo. A dover essere reso pieno è il nostro tempo, quello scandito dall’incessante rosicchiare del topo bianco e di quello nero. Il Figlio non l’ha mutato: l’ha condiviso come qualcosa di dovuto. Colui che veniva da Dio assunse il tempo dell’uomo. Egli nacque, crebbe, visse, morì. Cambiò tutto, senza modificare nulla. Diede speranza a chi si regge su quel ramo traballante venendo a stare con lui. Ci insegnò che esiste il miele del tempo fraternamente spartito. Così facendo attestò per chi si trova nella fede che, oltre a instabili cespugli, ci sorreggono anche le braccia di Dio che pur non vediamo. A tutti, credenti e non credenti, Gesù, però, mostra che la sobria, esigente dolcezza del tempo condiviso vale più dell’effimero; essa, infatti, dona pienezza a quanto è, e resta, precario.

Piero Stefani

 

320. Il miele del tempo condivisoultima modifica: 2010-12-23T08:26:00+01:00da piero-stefani
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