317. Il pensiero della settimana, n. 317

Impressioni romane

 

Celio. Nei meriggi autunnali vi è il sole più dorato dell’anno. Ci si lascia alle spalle il Colosseo e con esso il frastuono del traffico. Si sale verso S. Gregorio, ma non ci se ne cura, si guarda piuttosto la più piccola e articolata struttura di S. Andrea, chiesa gestita dai missionari della carità. La strada bordeggia un orto, gli ultimi pomodori e le stanche piante di zucca fiancheggiano ortaggi più vigorosi, adatti alla stagione che sta diventato più fresca: comincia l’epoca dei cavoli e delle rape. Si guarda e si è consegnati alla convinzione che i missionari siano caritatevoli nei nostri confronti per il solo fatto di coltivare quell’orto, là in pieno centro urbano. Il rumore del traffico si attenua, ma resta sensibile. Tuttavia, mentre si  procede per il clivio di Scauro, esso diviene meno intenso. Quando si giungerà al punto più elevato sarà solo un brusio di fondo, paragonabile allo scorrere di un torrente, soltanto il suono lancinante delle autoambulanze rompe l’ovatta sonora e dà un sussulto al cuore. Sulla sinistra, salendo lungo il clivio, si erge un campanile medievale decorato di terrecotte abbarbicato su enormi blocchi squadrati: sono resti romani; le epoche, qui, più che abbracciarsi si avvinghiano.

Si comincia a scorgere la settecentesca porta d’ingresso di Villa Celimontana. Gli stipiti fanno da cornice a una pianta di arancio carica di frutti solatii. Entrati ci si trova  sotto l’ombrello di pini altissimi; una pianta di limoni trabocca dal muro. Il verde cupo dei lecci e quello più tenue delle palme è trapuntato dalle macchie gialle di sparsi alberi a foglia cedua. Uccelli e cornacchie passeggiano senza cinguettare né gracchiare. Se ci si avvicina ai bordi e si spinge lo sguardo verso l’esterno, si scorge verde a perdita d’occhio, con qua e là rovine romane. In lontananza appaiono le gobbe dei monti. La sindrome di Stendhal è alle porte. Antidoto all’attacco è la presenza di alcune persone stravaccate sulle panchine, ancora in canottiera colorata e con lo sguardo sperso in un breve orizzonte: lo schermo del proprio telefonino.

 

Cielo plumbeo, è primo pomeriggio ma sembra sera. Non piove più, ma tutto lascia credere che riprenderà. Sui gradini di una chiesa non importante nei pressi della fontana di Trevi ci sono cinque o sei giovani dalla pelle scura e berretti calcati. Il loro aspetto richiama più la costa dell’Oceano Indiano che quello dell’Atlantico. Tutto è cupo, con due eccezioni: i vivaci mazzi colorati di ombrellini pieghevoli che pendono dalle loro mani e il bianco dei denti mentre ridono. La capacità di resistenza degli esseri umani ha larghi confini; eppure, a volte, tutto sembra stringersi a imbuto e si fa fatica a vedere come uscirne, anche se ci si trova in condizioni  meno precarie di quei giovani.

 

Piazza Verdi, poligrafici e zecca di stato. Edificio di monumentale pesantezza, corredato da colonne massicce e da grevi decorazioni in cemento. Il complesso doveva dare l’impressione che quanto vi era stampato fosse dotato di imperitura validità e quanto vi veniva coniato avesse una solidità inattaccabile  dalle oscillazioni valutarie. Lo stile manifestava una coerente sopravvalutazione di sé. Se lo si guarda oggi l’impressione è differente: la facciata è costellata da decine di cassonetti dell’aria condizionata; già mal ridotti, sembrano assaliti dal tarlo dell’inefficienza.

Ogni coerenza è ormai persa, l’incapacità di sopportare l’estate da parte della classe impiegatizia ha fagocitato  la grandiosità.  La monumentalità ha ceduto alla dilagante inettitudine odierna a lavorare d’estate («oggi si muore dal caldo»). Si tratta però solo della penultima tappa, quasi di un involontario preavviso che stia per scoccare l’ora fatale. L’anacronismo della struttura risulta sempre più evidente; a quanto si dice, si sta cercando, con comprensibili difficoltà, una nuova destinazione per il pachidermico edificio. Del resto, la sorte di molto di quel che  vi è stato stampato e coniato ha già mostrato, a iosa, come il suo contenuto fosse più effimero dell’illusoria solennità edilizia del contenitore.

 

Ci si sperde per l’immenso parco, si giunge fino a luoghi semi-abbandonati con rovi e sterpaglie, terreno sabbioso e qualche rara traccia di ferri di cavallo. Poi ci si trova su un viale in leggera salita; al termine dell’infilata dei lecci troneggia, imponente,  Villa Borghese. Al suo confronto le ostentazioni dei ricchi odierni (compresa villa Certosa) fanno la figura del trenino con finta locomotiva e vagoncini bianchi fermo sul piazzale prospiciente il grandioso edificio: un nulla di cattivo gusto.

«La bellezza salverà il mondo» si ama ripetere, ma chi salverà le lacrime e il sangue di tanta povera gente che, con il suo lavoro, ha fatto sì che gran parte di quella bellezza fosse?

Piero Stefani

317. Il pensiero della settimana, n. 317ultima modifica: 2010-12-04T09:55:06+01:00da piero-stefani
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