312 – La volontà di tradurre[1] (31.10.2010)

Il pensiero della settimana, n. 312 

 

Una delle grandi avventure intellettuali del XIX secolo fu costituita dalla decifrazione dei caratteri cuneiformi. Si conoscevano migliaia di tavolette  solcate da queste  tracce grafiche a cuneo. Si sapeva che la scrittura trasferiva sull’argilla la  lingua impiegata prima dagli antichi sumeri poi dagli assiro-babilonesi; ma non si possedeva nulla di equivalente alla stele di Rosetta; cioè non si trovò uno scritto in cui, accanto all’ignoto, ci fosse il noto. Eppure  ci si appellò, con inesausta tenacia, al presupposto che fossero una lingua e una grafia e che quindi, per loro natura, dovevano essere traducibili. Alla fine, grazie allo sforzo corale di molti ricercatori, se ne venne a capo. L’estraneo e l’incomprensibile acquistò leggibilità.

Pur trovandosi di fronte a un «altro» che appariva totalmente tale, vale a dire  un estraneo nel senso letterale del termine, si riuscì a trovare il bandolo della matassa.  Anche nell’ambito umano l’incontro con l’«altro» si presenta innanzitutto come questione di traducibilità. O meglio è un  problema di volontà di farlo, visto che va presupposto che la traduzione sia sempre possibile. Occorre imparare a tradurre lingue, costumi, comportamenti, modi di vedere il mondo. La volontà, tuttavia, spesso latita. Non di rado l’«altro» è giudicato un estraneo, ossia una realtà intraducibile. Ci sono occasioni in cui bisogna concludere che le tavolette di argilla hanno goduto più credito dei volti.

Paul Ricoeur,  nel  corso di un suo dialogo con Lévinas, ebbe occasione di affermare: «Io sono affascinato dal problema della traduzione […] sono molto stupito dal fatto che consideriamo la traduzione possibile in linea di massima: quando ci troviamo di fronte a iscrizioni fin qui sconosciute, facciamo subito la scommessa che si deve poter tradurle, che esse non derivano da un’altra umanità, nonostante una pluralità insuperabile che non può essere oltrepassata se non con la traducibilità».[2] Questa scommessa non è però sempre fatta quando ci troviamo di fronte allo straniero/estraneo incontrato agli angoli delle nostre strade e sul pianerottolo delle nostra case.

Una famosa storiella dell’ebraismo dell’Europa orientale narra lo scambio di battute intercorso tra Avrom e Mendel. Il secondo chiede al primo: «Dove vai?», quest’ultimo risponde: «Vado lontano». E Avrom replicò: «Lontano da dove, Mendel?». La lontananza è una dimensione  relativa. Ci deve essere un punto fisso nei confronti del quale dichiararsi distanti. Anche il concetto di straniero è per sua natura prospettico: straniero a chi? Se esistesse solo una piena interscambiabilità si potrebbe parlare di forestiero solo in modo reciprocamente speculare. Assunto in questa veste il paragone con le tavolette cuneiformi zoppica. Lì la reciprocità è esclusa per definizione. Le tavolette  non hanno alcuna esigenza di comprendere noi. In questo caso  è  questione di pura traducibilità, non di incontro.  Quando invece un essere umano si trova di fronte a un suo simile la traducibilità simmetrica dovrebbe essere la norma. In effetti non è  quasi mai così. Lo straniero è tale perché si trova a vivere entro una società composta da una maggioranza che si sente a casa propria. Quando il forestiero è un immigrato (in Italia cinque milioni secondo le ultime statistiche Caritas) la simmetria posta all’insegna della reciproca estraneità di partenza e della successiva traducibilità bilaterale è perduta in partenza. In queste circostanze non si è mai reciprocamente stranieri.

Tutti gli ambulanti marocchini, tutti i negozianti cinesi o pachistani sanno, bene o male, un po’ di italiano. Pochissimi nostri connazionali saprebbero rispondere  agli immigrati nella lingua loro nativa. Non si tratta di cattiva volontà, non è semplicemente dato fare altrimenti. Tuttavia la constatazione dovrebbe rendere consapevoli che il superamento dell’estraneità compiuto per via di traduzione, nella prassi  non avviene mai in condizione di autentica reciprocità; e il riferimento linguistico è solo un aspetto che ne evoca molti altri.  Essere forestieri è questione di minoranza, vale a dire lo straniero vive all’insegna di un confronto non posto all’insegna di una perfetta reciprocità. Non è dato invertire le regole di questa grammatica di fondo. Tuttavia ciò non dovrebbe comportare l’esclusione di ogni forma di incontro e di traducibilità. In questo senso si possono riproporre le parole di Ricoeur:  gli immigrati «non derivano da un’altra umanità, nonostante una pluralità insuperabile che non può essere oltrepassata se non con la traducibilità». Nella prassi spesso è così. Gli incontri avvengono. Di contro la deriva razzista abbarbicata nelle viscere della nostra società è invece tentata di pensare ed agire come se una parte degli immigrati derivasse da «un’altra umanità».

Piero Stefani

 




[1] Riproduco la prima parte dell’intervento, L’altro che viene da fuori: il forestiero  tenuta presso la Scuola di Teologia di Monza il 26 ottobre 2010.

[2] «Giustizia, amore, responsabilità» Un dialogo tra Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur in E. Levinas, P. Ricouer, G. Marcel, Il pensiero dell’altro a cura  di F. Riva, Edizioni Lavoro, Roma pp. 93-94.

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Un pensiero su “312 – La volontà di tradurre[1] (31.10.2010)

  1. “Dov’e tuo fratello?”; Chiede il Padre nostro a Caino,” Non lo sò, sono forse io il custode di mio fratello?”; Risponde Caino. Carissimi fratelli ancora oggi L’Eterno ci chiede di interessarci dei fratelli con spirito di familiarità, cioè come realmente sorelle e fratelli, figli di uno stesso papà che è anche mamma. Il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo non è forse venuto nella carne “primizia tra fratelli” per riconsegnarci questo spirito di carità che è condivisione? Chi separa l’uomo dall’uomo e l’uomo da Dio, se non la nostra imperfezione,la nostra vanagloria, spesso la nostra intelligenza,che niente sopporta, niente scusa, niente perdona? Eppure tra fratelli il perdono senza se e senza ma, è vero atto di carità perchè ci sta a cuore non il fatto in se, ma la compassione, la misericordia verso i fratelli, che è vero amore e riconciliazione”; (Tutto quello che volete gli uomini facciano a voi fatelo anche voi a loro). La ricerca del regno e della sua giustizia carissimi per quanto è da noi ambita e agognata(è la nostra preghiera quotidiana: Padre Nostro che sei nei cieli…), parte sempre dalla constatazione che il nostro egoismo a volte si frappone tra noi ed i fratelli, ma a noi non è dato di giudicare e tantomeno di condannare, perfino quando il Prefetto della congregazione per la dottrina della fede scrive nell’anno giubilare “Dominus Jesus”. Tutti ci siamo intristiti, dopo aver letto questo documento(SAPIENZA DI QUESTO MONDO). “Ti rendo lode Padre, Signore del cielo e della terra, perchè hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Si, o Padre,perchè così è piaciuto a Te”. La conversione al Regno che noi invochiamo non è un cambiamento di religione ma è cambiamento di mentalità, come intendeva il Maestro. E’ il cammino progressivo dall’egoismo all’altruismo, dall’individualismo alla socievolezza, dall’isolamento alla comunità, dall’avidità alla generosità, dall’ansia di possesso alla sobrietà di vita, dall’indifferenza all’impegno. Questo è il compito comune dei credenti di tutte le religioni. Cristo non è nemico di qualche religione ma dei falsi dei che usurpano il posto del vero Dio, che ci è Padre e Madre ,Fratello e Sorella. Questa è la preghiera fratelli: Che Noi Siamo Chiesa, realmente comunione, fraternità, sororità, perchè il regno è già iniziato ed è già dentro di noi. Siamo stati desiderati, amati, perdonati perchè questo spirito di dolcezza e di verità che pervade la creazione, fosse condiviso, donato, ricevuto con gratitudine. ( dopo la esperienza di accoglienza e condivisione dei fratelli albanesi, marocchini, extracomunitari che arrivarono da noi in puglia 20 anni fa).
    Non avevano niente, avevano bisogno di tutto. I nostri paesi si sono riempiti di questi ragazzi, magrissimi, con pochi vestiti, affamati, senza dimora. Ci sembrava di rivedere i nostri genitori , i nostri fratelli e sorelle, emigrati in America, nel nord Italia, in Germania, in Australia anni prima. La cosa più commovente è stata la capacità di accoglienza e condivisione di questi fratelli che non vedevamo da sempre, da parte delle famiglie più semplici: i contadini.
    L’accoglienza, è stata prima che un ragionamento, una emozione, un fatto del cuore, sentito a pelle, da parte di chi si ricordava di quella condizione per averla vissuta, e ne aveva compassione.
    Ho compreso le parole dell’ Eterno ad Israele nei riguardi del povero, dell’orfano , del forestiero: “ Ricordatevi che voi eravate stranieri…”.
    La maggior parte degli Albanesi, Marocchini, Algerini che ospitammo nelle nostre famiglie, le caritas, erano persone semplici ma fiere, se non vedevano il dono come un vero atto di amicizia, oserei dire di affetto, rifiutavano.
    Le cose che noi possiamo dare, non servono se non c’è amicizia, comprensione, compassione.
    La condivisione della speranza, l’amicizia, l’accettazione della novità del divenire, vengono prima di qualsiasi aiuto materiale, e sono una grazia per chi è chiamato, perché danno il significato alle parole dell’evangelo, ciò che sta scritto, diviene una cosa viva, la sua esperienza è il regno che viene.
    SIEDI CON NOI A MENSA
    DA QUANDO SIAMO PICCOLI PADRE,
    NOI MANGIAMO IL LATTE E L’AMORE DI NOSTRA MADRE,
    ED ORA PADRE SANTO MANGIAMO QUESTO CIBO CHE CI HAI CONCESSO,
    FRUTTO DEL LAVORO DELLE NOSTRE MANI E DEL TUO INFINITO AMORE.
    PER QUESTO STA SCRITTO NON DI SOLO PANE VIVE L’UOMO,
    MA DI OGNI ESPRESSIONE CHE ESCE DALLA BOCCA DELL’ETERNO.
    NOI TI PREGHIAMO PADRE CONCEDI A TUTTI DI SEDERSI ALLA TUA MENSA,
    SIA A CHI NECESSITA DEL PANE, SIA A CHI HA BISOGNO DEL TUO AMORE.
    BEATI COLORO CHE SIEDONO A MENSA CIRCONDATI DALL’AMORE DEI FRATELLI.
    ECCO VERRANNO DA ORIENTE E DA OCCIDENTE,
    DA SETTENTRIONE E DA MEZZOGIORNO PER SEDERSI ALLA TUA MENSA. AMEN

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