313. Una traducibilità asimmetrica [1]

Il pensiero della settimana n. 313

 

Tra i fattori  che ostacolano la traducibilità, a detta di molti, c’è anche quello religioso. L’accusa si incentra su quanto Jan Assmann ha denominato con il termine di «distinzione mosaica». Con la sua comparsa insorge  una religione dotata della pretesa di essere l’unica vera che relega tutte le altre nell’ambito della falsità. La pretesa  esclusivista del monoteismo rappresenterebbe perciò un ostacolo pressoché insormontabile  alla traducibilità culturale. «La più elevata  opera civilizzatrice  delle religioni politeiste consistette nel classificare per forme, nome, funzione le forze alle quali l’uomo si credeva soggetto. Grazie a questo sistema le divinità di un gruppo potevano essere paragonate a quelle di un altro, anzi potevano essere tradotte le une  nelle altre. E ciò rese a sua volta possibile patti internazionali basati sul reciproco riconoscimento dei rispettivi dèi sui quali si giurava […] Nel contesto attuale […] l’unica tesi a risultare decisiva è quella che ha suscitata tanta indignazione nei miei confronti da parte dei teologici. La tesi secondo cui il  monoteismo ha posto fine a tale traducibilità reciproca […] Posso tradurre ciò che è estraneo in ciò che mi è proprio, ma non posso tradurre il falso nel vero».[2]

Non si può negare che in alcuni casi la religione del forestiero sia considerata una minaccia alla verità della propria. Anzi, la religione può effettivamente diventare motivo per produrre estraneità. Il ricorso a termini come «pagano» o «eretico» sta a indicare la creazione di questo modo di procedere. Come dice John Locke nella sua Lettera sulla tolleranza, nessuno è infatti eretico ai propri occhi. In questo caso perciò si è di fronte a un processo di produzione di estraneità compiuta dall’esterno. L’eretico, il pagano, l’infedele, lo scomunicato con bando perpetuo sono  l’«altro» che non può essere tradotto; sono coloro rispetto ai quali sono precluse molte relazioni.

L’accusa, rivolta alle fedi monoteistiche, di bloccare la traducibilità reciproca è molto radicale; tuttavia non si può negare che essa abbia dei fondamenti. Urge perciò individuare strategie capaci di muoversi in un ambito che non espella del tutto la traducibilità. Ce ne sono state, ma non senza difficoltà, specie in riferimento all’esistenza di una reciprocità simmetrica delle parti coinvolte. A motivo della comune partecipazione all’umanità, lo straniero non è mai portatore di una estraneità assoluta, tuttavia tradurre resta un’arte difficile e quasi mai compiuta in modo simmetrico anche se ci si impegna nella relazione.

Una delle modalità classiche in cui nell’ambito delle religioni monoteistiche si è cercato di contrastare l’esclusivismo riservato all’«altro» è il ricorso all’idea di creazione. Dove ci sono molti dèi ognuno di essi può presiedere, pluralisticamente, a una sola funzione; uno al giorno, l’altro alla notte, uno alla giustizia e un altro alla misericordia, uno alla nascita, un altro alla morte e così via; ma dove c’è un Dio solo tutti gli estremi, per quanto lontani e contrapposti, devono essere rivolti per forza a Lui. Da questo tipo di unicità deriva la convinzione che anche l’«altro» è voluto da Dio. A livello superficiale il convincimento può facilmente congiungersi con la colpevolizzazione di colui che non riconosce il Dio a cui pur deve la propria esistenza; tuttavia assunta in modo più profondo, la fede monoteistica esige che la semplice esistenza dell’«altro» divenga un’affermazione del Dio unico. Ciò comporta una relazione, senza però instaurare con ciò  una compiuta simmetria.

Un racconto, tramandatoci dal grande al-Ghazali, narra che uno zoroastriano, simbolo, in questa circostanza, di un uomo qualsiasi appartenente a un’altra religione, chiese ospitalità ad Abramo, l’amico di Dio. Gli disse quest’ultimo: «Se ti dai interamente a Dio [stessa radice della parola islam] ti ospito» Lo zoroastriano tirò dritto; allora Dio eccelso disse ad Abramo: «Tu l’avresti nutrito solo a condizione che avesse cambiato fede? Noi da settant’anni lo nutriamo nonostante la sua miscredenza. Se gli avessi dato ospitalità per una notte quale sarebbe stata  la tua colpa?». Abramo allora inseguì quell’uomo e lo ospitò. Lo zoroastriano allora rispose: «così mi tratta?» e aggiunse «esponimi la tua fede» e «si diede interamente [radice della parola “islam”] a Dio».[3] La conclusione legata alla conversione – inevitabile in quel contesto – non fa che segnare, con un tratto più forte, quanto è davvero nell’ordine del discorso: per una fede monoteistica allorché ci si rapporta a un esponente di un’altra fede (o di una visione areligiosa del mondo) la relazione non può essere compiutamente simmetrica. Ciò vale anche quando si afferma che Dio è il padre di tutti; pure in questo caso infatti vi è la differenza tra chi lo afferma e chi invece lo ignora. Tuttavia va anche detto che qui – e non è poco – si è scongiurato almeno il pericolo di consegnare all’estraneità assoluta di colui che viene da fuori.

Un’altra strategia assunta dalle fedi nel Dio unico per contrastare l’esclusivismo sta nel riferirsi a una comune esperienza umana. Ciò vale pure nel caso dello straniero. In proposito tornano alla mente le parole del libro del Levitico, collocate dopo quelle che comandano l’amore del prossimo (Lev 19,18): «Quando un forestiero dimorerà presso di voi  nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi  lo tratterete come colui che è nato fra voi: tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lev 19,34). Sono parola alte e forse mai pienamente praticate sotto nessun cielo. Eppure è già molto che siano state scritte. Esse indicano che per essere accoglienti non basta la propria passata esperienza collettiva. Non è solo nell’Italia di oggi che l’essere stati un popolo di immigrati si rivela insufficiente per identificarsi con chi, dal di fuori, viene presso di noi. La Bibbia fa capire quanto ciò anche un tempo fosse difficile, là dove si appella all’«alterità» del Signore per attribuire forza imperativa alle parole che comandano di amare lo straniero.  La clausola finale «Io sono il Signore vostro Dio», qui sta a significare che Egli è Dio non solo degli ebrei ma anche degli stranieri. A suo tempo Paolo si sarebbe retoricamente domandato: «Forse che Dio è Dio soltanto dei giudei? Non lo è anche delle genti? Certo anche delle genti» (Rm 3,29). In altri termini, agli occhi di Dio si può immaginare una piena uguaglianza tra tutte le sue creature, ma nel cuore dei suoi fedeli ciò può, parzialmente avvenire, solo per quel tanto in  cui essi danno ascolto alla sua voce.

Il mistico ebreo medievale Abulafia, al termine di una complessa parabola, giunge a una conclusione che vale anche se estrapolata dal suo contesto. Essa afferma che verrà un giorno in cui «in ogni straniero si vedrà un compagno, in ogni compagno se stesso».[4] Oggi  più che mai quel giorno va declinato ancora al futuro.

Piero Stefani

 




[1] Riproduco la seconda parte dell’intervento, L’altro che viene da fuori: il forestiero.  tenuto presso la Scuola di Teologia di Monza il 26 ottobre 2010. La terza e ultima parte riprendeva alcuni spunti già contenuti nel pensiero 122 (vedi blog).

[2] J. Assmann, Non avrai altro Dio, il Mulino, Bologna 2007, pp. 10-12.

[3] Al-Ghazali, Il ravvivamento delle  scienze religiose in  Scritti scelti, Utet, Torino 1970, p. 413.

[4] Cit. in K.-J. . Kuschel, «L’ebreo, il cristiano e il musulmano s’incontrano»? «Nathan il saggio» di Lerssing, Queriana, Brescia, 2006, p. 201

313. Una traducibilità asimmetrica [1]ultima modifica: 2010-11-06T06:46:40+01:00da piero-stefani
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Un pensiero su “313. Una traducibilità asimmetrica [1]

  1. Qualsiasi monoteismo presuppone una verità unica, quella, appunto di Dio, a prescindere da qualsiasi modello semantico.
    Abulafia dice che un giorno il contesto semantico che ora ci definisce e ci imprigiona si amplierà fino a includere in fratellanza e identità anche chi ora è Altro. Ma a quel punto, per citare un testo che tutti conosciamo, “Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier”.
    Il nemico più attuale del monoteismo è il sofismo che, da Gorgia a Lacan via Heidegger, vede nella verità nient’altro che un costrutto semantico contingente. “Il n’y a pas de grand Autre” è una radicale negazione della presenza divina.

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