258 – Quando le finestre sono aperte (12.07.09)

Il pensiero della settimana n. 258 

  

Prima che l’aria condizionata si impossessasse delle nostre estati e lasciasse  pesanti segni di sé su cervicali e laringi, la stagione più calda dell’anno era contraddistinta dalle finestre aperte. Allora si riduceva il frammezzo tra l’interno e l’esterno: aria, rumori, suoni, odori e insetti entravano senza ostacoli tra le mura domestiche. Non tutti sono ospiti graditi. Anzi,  rispetto ad alcuni di essi occorre porre in atto barriere protettive: le finestre sono a volte munite di fitte reticelle, oppure si innalzano piccole cortine fumogene per tener lontano fastidiosi ronzii e irritanti aculei.

D’estate si è più esposti al fatto che il mondo venga a noi. Non si sceglie cosa giunge. La qualità di quanto entra dipende da dove ci affacciamo. Altro è una strada caotica, altro un giardino, un parco o un campo. Neppure in questi ultimi casi tutto è idilliaco. Non è raro che le campagne siano cosparse da anticrittogamici che appesantiscono il respiro, sterminano insetti e spingono gli uccelli in città. Al centro di Milano si possono ormai vedere sfrecciare rondini più che in borghi agresti. I volatili abitano le nostre città. Il tappeto sonoro del traffico urbano si mescola con  regolarità al tubare dei colombi.

    Le finestre aperte verso il cielo fanno sì che giungano a noi i multiformi canti dei suoi abitatori. Se li si studia si constatano avvenute mutazioni: prolificano gazze e ghiandaie, si riducono i passerotti, il gracchiare  delle cornacchie si è fatto sempre più urbano e i gabbiani sono giunti là dove non erano mai stati. Gli ornitologi potrebbero fornire mappe dettagliate della popolazione alata, tracciare grafici e curve. Con tutto ciò,  ogni tanto resta la sorpresa che un canto di uccelli giunga a noi.  Se li si ascolta con  spirito scientifico in essi non si trova nulla per cui provare trasporto. Nell’Origine delle specie si ammonisce a non guardare solo alla «superficie della natura, splendente di letizia», dimenticando che pure «quegli uccelli che cantano oziosamente attorno a noi, vivono per lo più di insetti e semi e quindi distruggono continuamente la vita».           

   Questa obiettiva considerazione non intacca le dinamiche soggettive che proiettano su quei suoni giunti fino a noi  significati che sono propri di chi ascolta e non di chi gorgheggia. Udire alla mattina presto il canto degli uccelli è esperienza che ci può donare un istante di felicità e ciò non potrebbe avvenire senza illudersi, per breve momento, che chi emette quel suono sia contento di essere al mondo. Va da sé  che si tratta di una proiezione del nostro interno verso l’esterno; per questo motivo il modo di ascoltare il canto degli uccelli si colora, di persona in persona, di significati diversi;  grande è infatti  la varietà degli stati d’animo degli esseri umani. In ogni caso è ben difficile (anche se non impossibile) che qualcuno, anche quando fosse personalmente infelice, consideri spiacevole quell’esperienza.

Leopardi nelle Operette morali, parlando del canto degli uccelli,  afferma che quei suoni di cui è piena l’aria indicano l’esistenza di una letizia capace di recar conforto e di rallegrare in quanto non suscita l’altrui invidia; perciò «molto lodevolmente  la natura provvide che il canto degli uccelli, il quale è dimostrazione di allegrezza, e specie di riso, fosse pubblico; dove il canto e il riso degli uomini, per il rispetto al rimanente mondo, sono privati». La natura quindi operò sapientemente facendo risuonare voci di gioia che, applaudendo alla «vita universale», incitano gli altri  viventi all’allegrezza, dando una «continua testimonianza, ancorché falsa, della felicità delle cose».

L’intenzionalità posta da Leopardi nella natura è, consapevolmente, la prima fra tutte le illusioni. È solo la soggettività umana a leggere nei volatili, distruttori di vita, i segni di una possibile e mai conseguita felicità. Gli uccelli sono simboli di allegrezza perché quegli esseri sono ritenuti tanto innocenti quanto ignari dell’infelicità altrui. L’ostensione della felicità, o del suo più superficiale sostituto rappresentato dal riso, è umanamente riprovevole in quanto non può dirsi esente né dall’una né dall’altra delle due condizioni prima dette.

Le modalità in cui al giorno di oggi si vivono la vacanze sono spesso contraddistinte da una ostensione di pseudo felicità e di riso volgare (il quale, a partire dalle facce dei potenti, sostituisce sempre più l’umano sorriso). Ascoltare alla mattina d’estate il canto degli uccelli fa comprendere che il briciolo di felicità che ogni tanto ci sorprende è tale solo se rifugge dalla ostentazione: innescato da un moto che dall’esterno va verso l’interno,  non gli è dato di trovare corrispondenza piena  in senso inverso.

Piero Stefani

258 – Quando le finestre sono aperte (12.07.09)ultima modifica: 2009-07-11T06:25:00+02:00da piero-stefani
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