252 – Un paese non basta (31.05.09)

Il pensiero della settimana, n. 252

 

Quando si progetta di scrivere un libro è norma immaginare un titolo. Sotto quell’espressione si raccolgono temi e si riempiono le pagine. Poi, alla fine, può capitare che, per ragioni editoriali o per ripensamenti interni, la formulazione muti. L’imprinting originario però resta; anche, se, quasi sempre, il lettore conosce solo la versione definitiva. Nel caso della autobiografia di Arrigo Levi, Un paese non basta (il Mulino, Bologna 2009) sappiamo invece anche quale fu la prima idea: «Come diventai giornalista» (p. 272).  L’ultimo titolo, più bello ed evocativo del precedente, trasforma in una specie di messaggio un’espressione tratta da una lettera personale dell’autore (cf. pp. 112, 270). Terminata la lettura del libro si comprende, però, come le due formulazioni costituiscono le facce di una stessa medaglia. Entrambi i titoli rivendicano a sé uguale pertinenza: un surplus di senso deriva proprio dal loro intreccio.

Il detto «un paese non basta» non si attaglia né allo sradicato, né all’esule, né all’apolide.  Esso si confà a chi intreccia più appartenenze, senza prenderne alcuna come esclusiva ed escludente. Ciò, ben s’intende, non significa fare di ogni erba un fascio. Per  sentirsi a casa in simili contesti occorre curiosità intellettuale, capacità di osservare e di raccontare. Vi sono più modi per farlo: tra essi quello di essere giornalista. In questa luce vanno lette le espressioni tratte da vecchie lettere di Levi in cui si afferma: «forse penso che questa mia complessa identità trovi una propria composizione soltanto nella mia vocazione di giornalista» (p. 214); «forse la mia patria finirà per essere il giornalismo» (p. 215). Il ricorso al termine «vocazione» è l’esatto corrispettivo di «identità complessa». Levi non pensò fin dall’infanzia di diventare giornalista; egli si immaginava piuttosto, come era tipico dei membri della sua famiglia, di essere  avvocato a Modena. Né poteva prevedere che le ricadute personali della «grande storia» novecentesca avrebbero condotto prima la sua famiglia in Argentina e in seguito lui a prendere parte alla guerra di indipendenza di Israele e a soggiornare a lungo, negli anni cinquanta, a Londra. Tanto meno avrebbe potuto prevedere che si sarebbe identificato, sia pure in modo diverso, con ognuno di questi ambiti. Quella del giornalismo fu, per così dire, una vocazione imposta dalle circostanze, il che rappresenta sempre un sigillo di autenticità.

L’identità complessa di Levi affonda le proprie radici in una realtà ebraico-emiliana. Ciò vale per antenati ormai remoti di Finale di Modena (oggi Finale Emilia) e per la presenza più prossima e determinante del padre avv. Enzo. Da un capo all’altro del libro l’impronta di quest’ultimo è nettissima sia in quanto persona, sia in quanto espressione riassuntiva di un’epoca in cui l’essere italiano, modenese, ebreo e avvocato poteva apparire un approdo rappacificato di componenti a un tempo distinte e omogenee. Italiano significava patria; l’essere modenese comportava un modo di sentire, di parlare e di rapportarsi con i propri concittadini; ebreo equivaleva a essere erede di una tradizione contraddistinta dalla memoria ancora ben viva dell’uscita dalla segregazione e dalla condivisione di un senso di giustizia che trovava la propria corrispondenza pure nell’esercizio della professione di avvocato civilista.  Tuttavia se il padre rappresentasse solo questo insieme, egli rischierebbe di essere simbolo di una realtà tanto nobile quanto, in massima parte, passata. Non è così e non lo è per due ragioni: la prima è l’immane rottura abbattutasi su questa armonica molteplicità a causa prima delle leggi razziali e poi della Shoah; la seconda sta nel fatto che a quegli eventi sono sopravvissuti tanto la famiglia (attraverso un preveggente trasferimento in Argentina), quanto una serie di convinzioni profonde che possono riassumersi nell’espressione «fede nell’umanità». Entrambe le realtà vanno collegate innanzitutto alla figura del padre, il quale resta un riferimento costante nel suo essere stato, in un tempo di catastrofe, incarnazione di valori che dicono che all’uomo, nonostante tutto, è dato ancora sperare.

L’ottimismo ingenuo del XIX sec. è tramontato per sempre, tuttavia alcuni valori impersonificati dal padre restano punti di riferimento fissi per Arrigo. Anche ciò ha avuto un prezzo e non piccolo. Così scrive Levi riferendosi al padre, tornato in Italia dall’Argentina, malato di cuore, il 2 giugno 1946, giusto in tempo per votare: «La libertà restituita al suo paese premiò, nei suoi ultimi anni di vita, il suo ottimismo di uomo dell’Ottocento, secolo del progresso, capace di viaggiare attraverso i disastri del Novecento senza che le sue idee guida ne fossero sconvolte; anche se ne fu sicuramente ferito nel suo cuore» (p. 54). La capacità di gettare un ponte sopra  il baratro riuscendo ancora a credere nell’umanità fa parte della vocazione al giornalismo del figlio, caratteristica inspiegabile senza la presenza dell’eredità familiare: «Per tutta la vita di giornalista, mi toccò di essere testimone e cronista di un’epoca dove storie tragiche come queste che allora ascoltavo [riferite alla Shoah] […] continuarono e continuano ad alternarsi, sulla scena del mondo, a vicende che invece tengono viva la speranza nel futuro dell’umanità» (p. 149).

La fede laica di cui Levi si professa seguace si manifesta precisamente nel credere che questa alternanza non equivalga a costruire effimeri castelli di sabbia. Levi dichiara di avere (forse più di ogni altra persona da lui incontrata) viva la preoccupazione che sull’umanità pesi  la minaccia di un annientamento totale; l’arma atomica può essere non usata, ma, da quando c’è, essa rappresenta una possibilità iscritta in modo irreversibile nella storia (pp. 240, 279s.). Pure per questo, per guardare al futuro in maniera non cupa, occorre avere fede: «La fede […] sia essa, come diceva Norberto Bobbio, “fede in un Dio Creatore o in un Dio creatura, fede in un Dio trascendente o fede nell’uomo”, vive ed opera dentro di noi come una Grazia preziosa, capace di sopravvivere  a qualsiasi tragedia. Anzi, proprio nel profondo del dolore ad essa ci rivolgiamo, noi laici, come i credenti “religiosi”, come estrema fonte di vita e di speranza» (p. 241).

Alla Buenos Aires, colta e viva della prima metà degli anni Quaranta, è succeduto Peron e, più in là negli anni, vi è stata la dittatura militare e la tragedia dei desaparecidos. Alla nascita dello stato d’Israele è seguita una stagione di guerre e una prospettiva di pace rimandata di generazione in generazione. Oggi molte nubi incombono sul mondo. Le vicende di cui Levi è stato testimone e cronista sono da lui stesso più volte dichiarate incompiute. Tante promesse non sono state mantenute. Tuttavia proprio per questo il continuo rilancio di speranze di pace e di giustizia che l’ormai ultraottantenne Levi difficilmente potrà vedere realizzarsi di persona, assume l’aspetto di una specie di fede: «Sono stato testimone di eventi orrendi, ma anche di miracolose rinascite, di vere e proprie resurrezioni, di imprevedibili riconciliazioni tra popoli per secoli nemici, capaci di giustificare quella fede nel futuro che è propria di chi crede in un Dio-Provvidenza, dotato di onnipotenza capace di salvare gli uomini anche quando si dimostrano incapaci di salvarsi da sé. Purtroppo non condivido questa fede, ho solo una fede trepida nell’umanità. Non credo che sia un Dio disposto a salvarci se non lo aiutiamo a salvarci. Ma chi siamo noi?» (p. 279).

Il punto di arrivo è una domanda. Nessuno all’inizio del XXI sec. può ripetere alla lettera le (pseudo) certezze di fine Ottocento. Alla nostre spalle c’è qualcosa di troppo oscuro da cui dobbiamo rifuggire. Questa situazione collettiva trova in Arrigo Levi una specie di corrispondenza personale là dove l’autore presenta il proprio attivismo come una volontà di fuggire al «cane nero» della depressione (cf. pp. 103, 167s.). Oltrepassati i settant’anni Levi scrisse un libro dal titolo eloquente, La vecchiaia può attendere, superati gli ottanta il grande giornalista consegna ai propri lettori queste attivistiche memorie dei propri anni di formazione, scrivendo un testo contrappuntato da frequenti parentesi, da rimandi ad anni più recenti e da giudizi sul mondo di oggi. Neppure ora è giunto il tempo di un malinconico ripiegarsi su se stesso. Anche lo scrivere memorie diviene un modo per esorcizzare il «cane nero».

Piero Stefani

 

 

 

252 – Un paese non basta (31.05.09)ultima modifica: 2009-05-30T14:52:00+02:00da piero-stefani
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