253 – Il nome che manca (07.06.09)

Il pensiero della settimana, n. 253 

 

L’antropologia culturale insegna che là dove vi è un particolare interesse ambientale, economico o legato ai comportamenti il linguaggio diviene più preciso. La lingua eschimese ha molte parole per dire bianco. A noi basta al massimo ricorrere a un aggettivo (sporco) o a un paragone (come la neve); per chi vive perennemente tra i ghiacci, dove non crescono alberi, dove non ci sono zolle, messi e prati, la specificazione diviene un obbligo. Per noi parlare di un bianco chiaro non ha senso,  proprio come non lo ha riferirsi a un nero scuro, qualifiche entrambe riservate a quanto è intermedio tra loro: il grigio.  Per l’occhio e per la lingua degli eschimesi sembra invece che ci sia una parola per indicare il bianco chiaro e un’altra per esprime il bianco scuro.

A latitudini diverse si registrano casi analoghi al precedente. Nell’antica Arabia vi erano decine di parole per indicare il cammello a seconda dell’età, delle caratteristiche morfologiche, dei difetti fisici e così via. Quando si  doveva trattare  la compravendita di molti cammelli,  era utile avere delle etichette  che potessero presto e bene  individuare la qualità del prodotto.

In italiano ci sono parole che servono a qualificare chi è caratterizzato da una perdita di alcune delle relazioni più costitutive dell’esistenza: i genitori, il coniuge, il lavoro. Orfani, vedove, vedovi, disoccupati sono termini di uso corrente, perché comune al vivere umano è l’esperienza della privazione. Non tutti questi termini, per la verità, sono dotati di una precisione molto elevata. Se uno perde i genitori quando ha cinquanta o sessanta anni  non si qualifica come orfano. Né, peraltro, è fissata un’età specifica in cui diviene anacronistico parlare della propria condizione di essere orfani. Eppure anche se si perdono i genitori quando si è, a propria volta, in là con gli anni, il vuoto resta; anzi, esso assume contorni molto particolari, a volte particolarmente intensi, anche quando si sapeva che ciò doveva succedere. In ogni caso non abbiamo un termine adatto per indicare coloro che, da adulti, perdono il padre o la madre.

Quanto manca in senso assoluto è la parola capace di indicare un genitore che ha perso un figlio. Si possono ipotizzare molte ragioni per questa lacuna. In passato non c’era, in pratica, una madre o un padre che non avessero perso un figlio piccolo: essere genitori ed essere orbati di una propria creatura erano realtà quasi coincidenti. Un tempo (e anche ora ad altre latitudini) la mortalità infantile falcidiava, con implacabile  regolarità, vite appena sbocciate.  Inoltre i  figli possono essere molti e se ne può vedere morire più di uno. Decisiva è anche la variabile dell’età; non è la stessa cosa  veder  morire un figlio o una figlia a un giorno, a un anno, a dieci, a venti a quaranta anni. Inoltre ci sono persone che superano gli ottanta o i novant’anni e si sentono prossimi al congedo dalla vita,  eppure fanno ancora tempo a sperimentare la dura sorte di vedere morire un proprio figlio. Queste e altre variabili rendono difficile trovare un nome che  possa indicare quello status di privazione.

Ma basta tutto ciò? Perché gli eschimesi hanno tanti nomi per il bianco, gli arabi per i cammelli, noi – come sa, con preoccupazione, ogni studente di anatomia –  centinaia di termini per indicare le più piccole parti del corpo umano, e non possediamo neppure un nome  per esprimere un’esperienza che lascia tracce profonde sull’intera esistenza umana? Del resto chi oserebbe scovare un neologismo per un evento antichissimo? Ci sono termini per dire il vuoto e il nulla, ma forse esistono perdite troppo grandi per avere nome.

Piero Stefani

 

253 – Il nome che manca (07.06.09)ultima modifica: 2009-06-06T09:52:00+02:00da piero-stefani
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