251 – La seconda volta è più difficile (24.05.09)

Il pensiero della settimana, n. 251

 

La  prima volta ci possono essere molte incertezze, titubanze, paure legate a quanto è inedito, ma spesso vi è  anche risolutezza, coraggio, decisione. In quelle circostanze si arrischia, ci si getta, si fa. Nella memoria sono impresse molte  prime volte. Alcune tra esse hanno avuto una trascrizione proverbiale: «il primo bacio non si scorda mai».  Dopo si inizia a riflettere. Anche quando non si afferma: «non lo farò mai più», si può diventare meno baldanzosi. Si dice che per il paracadutista il secondo lancio è più difficile del primo. Sicuramente due volte sono troppo poche per costituire una consuetudine, ma sono già sufficienti per togliere il clima della novità assoluta.  Sono una conferma, ma non ancora definitiva. In ogni caso si respira un clima più prosaico. Non risulta che ci siano proverbi legati all’impossibilità di dimenticarla.

Se alla seconda volta ne segue una terza, una quarta, una quinta e così via, le cose mutano. Subentra l’abitudine, allora ci si può affidare all’esperienza. Quando per la trentesima volta si percorre una via se ne conoscono le curve, le pendenze, le sconnessioni del terreno. Se si è a piedi o in bicicletta si sa come dosare le forze, dove bisogna impegnarsi e dove si può riprendere fiato. In questi casi tornano in auge i proverbi: «la conosco come le mie tasche». La ripetizione  rende quella strada o quel sentiero quasi una parte di noi stessi. Ci si deve tornare periodicamente,  altrimenti se ne ha nostalgia. Un stato d’animo del tutto assente per la seconda volta.

Ci sono proverbi per indicare l’insufficienza di un solo avvenimento per comprovare una consuetudine: «una rondine non fa primavera» (citato persino da Aristotele). Ve ne sono per mettere in guardia contro i rischi di una ripetizione fatta a cuor leggero: «tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino». «Uno» e «molti» suscitano modi di dire; mentre il «due» riesce a farlo solo nell’ambito della ritorsione («chi la fa l’aspetti») che è altra cosa.

Se alla seconda volta non segue più nulla, è inevitabile evocare la logica dell’originale e della copia, dell’oggetto e della sua ombra. In altre parole,  è difficile sfuggire al paragone e quando esso avviene è il secondo termine a essere perdente. Per citare un esempio famoso, questo fu il destino di Napoleone III. Egli fu un personaggio di rilievo e non solo per la Francia. Senza troppa violenza seppe condurre la democrazia in un ambito plebiscitario, presentandosi in tal modo come capostipite di una lunga fila di imitatori, più o meno consapevoli, alcuni dei quali giungono fino ai nostri giorni. Tuttavia l’assunzione da parte sua del  titolo imperiale costrinse al paragone. Lui si chiamava terzo, ma il suo impero era inevitabilmente  il secondo. Il vero grande imperatore che sconvolse l’Europa restò sempre l’altro. Il  nipote fu condannato a essere brutta copia dello zio.

Nel corso del suo viaggio in Israele Benedetto XVI è giunto a Gerusalemme. Là è stato  il secondo papa a deporre un biglietto tra le fessure del Muro occidentale. Quel gesto impone il paragone con il suo predecessore e dal confronto Ratzinger non può che uscire perdente. Constatazione inoppugnabile, la quale, peraltro, non equivale a fornire una valutazione complessiva del suo viaggio.  Il resto dell’antico Tempio distrutto nel  70 e.v. è per la tradizione ebraica un luogo in cui  si trova la Shekhinà, la presenza umile di Dio presso il suo popolo.  A partire dalla guerra dei Sei giorni (1967), il Muro è ritornato, dopo quasi due millenni, in mani ebraiche. Ciò ha provocato una parziale trasformazione della sua simbologia piegata sempre più in senso nazional-religioso. Rimane comunque fuori discussione che l’uso di porvi i biglietti presuppone l’antico convincimento di essere luogo di presenza.

Per la massima parte della tradizione cristiana il Muro è stato interpretato in modo antigiudaico. Esso era il segno del culto distrutto, del popolo punito per aver rifiutato e messo a morte il suo messia. O, quanto meno,  era ritenuto  la prova evidente che il vero sacrificio, quello di Gesù Cristo,  avesse posto fine per sempre a ogni altra economia sacrificale. Un linguaggio, quest’ultimo, tuttora diffuso in ambito cristiano. I vangeli, del resto,  non attribuiscono a Gesù stesso le parole secondo cui di quella grande costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra  (Mt  24,1-3; Mc  13,1-2; Lc  21,5-7)?

In che forma e in che modo è possibile per un papa conformarsi a un atto tipico e peculiare di un’altra tradizione religiosa? In che senso prenderlo non come atto di cortesia, ma come una preghiera che può essere rivolta al Padre? Lo si può fare solo in modo paradossale. È ciò che aveva intuito Giovanni Paolo II. Wojtyla mise il biglietto accompagnandolo con un gesto tutto di parte: lo benedisse con il segno della croce. Ma in quelle righe infilate tra le fessure vi era l’unico tipo di preghiera che un papa poteva legittimamente formulare in quelle circostanze: una richiesta di perdono.  In effetti Giovanni Paolo II vi pose la seconda parte della preghiera pronunciata poco tempo prima  in un’altrettanto inedita liturgia penitenziale svoltasi a San Pietro:

 

 « Preghiamo perché nel ricordo delle sofferenze patite dal popolo d’Israele nella storia, i cristiani sappiano riconoscere i peccati commessi da non pochi di loro contro il popolo dell’alleanza e delle benedizioni e così purificare il loro cuore.»

 

«Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo nome fosse portato alle Genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendoti perdono, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza.»

 

Benedetto XVI in tutto il suo viaggio non ha mai espresso alcun «mea culpa» a nome della Chiesa. Egli ha cercato solo di conseguire una legittimazione reciproca di tradizioni religiose per quelle che esse sono, senza aprire mai il capitolo, fondamentale, delle colpe reciproche. Tema decisivo per affermare le proprie miserie e non solo le proprie grandezze. Ratzinger non ha benedetto le sue righe con il segno della croce. Formalmente si è conformato di più alle regole del rispetto reciproco. Eppure egli  non si trovava nelle condizioni di spiegare teologicamente il proprio gesto. Lì ha formulato una preghiera che non avrebbe mai potuto recitare in quel modo nel corso di una liturgia cattolica. Sono perciò righe legate più alla circostanza che alla fede. Nel Muro la seconda volta sono state infilate parole incapaci di incidere, dall’interno, sulla vita della comunità dei credenti in Gesù Cristo e in ciò sta il loro limite:

Dio di tutte le epoche,
in occasione di questa mia visita a Gerusalemme,
la «Città di Pace»,
casa spirituale per ebrei, cristiani e musulmani,
porto al tuo cospetto le gioie, le speranze e le aspirazioni,
le prove, il dolore e la pena
di tutte le persone del mondo.

Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe,
ascolta il grido degli afflitti, di chi ha paura, dei disperati;
Invia la tua pace su questa Terra Santa,
sul Medio Oriente,
su tutta la famiglia umana;
Muovi il cuore di chi chiama il tuo nome,
affinché percorra umilmente il cammino di giustizia
e di compassione.

«Buono è il Signore con chi spera in Lui,
con colui che lo cerca» (Lam, 3, 25)!

Piero Stefani

 

 

 

251 – La seconda volta è più difficile (24.05.09)ultima modifica: 2009-05-23T10:11:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo