372. La parte bianca del grigio (05.02.2012)

 Il pensiero della settimana, n. 372

Che l’essere umano sia imperfetto è dato di assoluta evidenza. Meno immediato è invece comprendere come si possa trarre dalle proprie imperfezioni alimento per compiere atti di giustizia. Sarebbe agevole sostenere che ciò ha luogo quando si è disposti a riconosce il proprio limite e a respingere la componente tracotante (hybris) che è in noi. Tuttavia le cose non stanno solo così. Non di rado si compiono azioni giuste contraddistinte da motivazioni spurie, o dettati da un impulso irriflessivo proprio di una natura che solo ogni tanto inclina verso il bene. A volte le azioni sono persino in contraddizione con altre convinzioni che si continuano a coltivare. In un suo libro, Gabriele Nissim parla di Zofia Kossak Szczucka, la scrittrice polacca antisemita che si impegnò a favore degli ebrei e che, pure dopo la guerra, continuò a professare le medesime convinzioni.[1] In questi casi l’atto giusto rappresenta la componente bianca della zona grigia di cui è formato l’animo della maggior parte di noi. Esso resta comunque qualcosa di diverso da uno splendido vizio.

Il cultore dell’antica convinzione stando alla quale l’agire consegue dalla natura di colui che agisce («operari sequitur esse») irrigidisce il detto evangelico stando al quale è l’albero buono a produrre frutti buoni. Di contro «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16) può essere, non arbitrariamente, inteso come un invito diretto a riconoscere la potenzialità di bene insita in noi. In altre parole, il detto è volto, in primis, all’autore stesso dell’atto giusto. Sia nel bene, sia nel male, siamo più figli che padri di determinate nostre azioni. Si sarebbe perciò tentati di trascrivere in termini di etica laica la frase che, a partire da una comprensione sinceramente devota, Lucia  rivolse con insistenza all’innominato: «Dio perdona tante cose, per un atto di misericordia!». Una nostra semplice azione può riscattarci.

Un atto di giustizia, anche imperfetto e ibrido, contribuisce a riconsegnarci a una sfera più consona alla nostra dignità umana. Per questo motivo non occorre che si sia mossi unicamente dall’altruismo. Si può essere spinti anche dalla volontà di salvaguardare la parte nobile che è in noi, di non essere, ora o in futuro, sopraffatti dalla vergogna, di non lasciarsi inquinare dal marciume dilagante e così via. Non di rado sono motivazioni di questa natura che, alla fine, inducono a dire un improvviso no che interrompe una lunga catena di gesti di acquiescenza o di interessati silenzi. Il punto chiave sta nel fatto che quest’etica che accoglie in sé l’imperfezione, lungi dall’introdurci nei placidi salotti dell’indulgenza, aumenta il nostro senso di responsabilità. È facile non essere all’altezza di ideali o di valori alti e indiscutibili. «Non sono un santo» è frase detta per lo più in maniera ipocrita; tuttavia, qualora sia pronunciata in modo onesto, essa contiene indubbie verità, specie se è corredata da un corollario che può essere riassunto in questi termini: «per questo sei tenuto a compiere atti di giustizia imperfetti». Su questo fronte si dispiega una modesta saggezza laica troppo spesso disprezzata dai custodi del sacro i quali, di norma, sono propensi a indicare ideali e valori altissimi contraddetti con grande frequenza da tutti, loro compresi, nella sfera della  prassi.

Da un «no» o da un «sì» improvvisi possono nascere esiti inattesi; quasi sempre questi ultimi  non sono immediati. Molto di frequente si deve aspettare a lungo in una paziente solitudine che in altri quell’imperativo, mosso dallo sdegno e alieno dal compromesso, sia preso ad esempio. A volte l’attesa si prolunga al di là della propria stessa esistenza. I riconoscimenti postumi, qualora non siano solo strumentali, sono attestazioni imperfette in cui il ritardo, per più versi irrimediabile, non offusca la motivazione di giustizia in essi contenuta. Sono atti per forza di cose imperfetti, tuttavia se si rifiutasse di compierli a motivo della loro “lato mancante”, sarebbe ben peggio. Nonostante tutto sono gesti che danno un avvenire a chi ha pagato la propria scelta nella solitudine del non riconoscimento. «Nemo propheta in patria», ma, a volte, si dovrebbe aggiungere anche un «in vita».

Piero Stefani




[1] G. Nissim, La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti, Mondadori, Milano 2011. Nissim è il presidente del comitato per  Foresta dei Giusti (Gariwo); attualmente si sta impegnando, presso il Parlamento europeo, per l’istituzione di una giornata europea in memoria dei giusti, cfr. http://www.gariwo.net

372. La parte bianca del grigio (05.02.2012)ultima modifica: 2012-02-04T10:47:00+01:00da piero-stefani
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