371. L’epoca dell’obsoleto (29.01.2012)

 

Il  pensiero della settimana, n. 371

 

 

Quando il proconsole Paolo Fabio Massimo introdusse il calendario giuliano nella provincia dell’Asia, fece redigere un’iscrizione che contiene un vero e proprio inno all’era nuova inaugurata da Augusto. In esso si legge questa frase: «Gli uomini non si pentivano più di essere nati». Il mutamento nel modo di contare il tempo fu caricato, in quell’occasione, di significati altamente simbolici. Molti secoli dopo, nella Francia rivoluzionaria, i giacobini cambiarono anch’essi il calendario per indicare l’ingresso in un’epoca nuova. Abbandonato il ritmo settimanale, si razionalizzò il tempo contandolo su base dieci, così come si faceva per pesi e misure. Nel 1830 i rivoluzionari del luglio parigino, ricorda Walter Benjamin, sparavano agli orologi pubblici per indicare l’incipiente svolta nel tempo. Anche i bolscevichi russi tentarono di scardinare la settimana. Più alla buona il fascismo, al fine di accreditare il regime di una sedicente portata rivoluzionaria, aggiunse il numero della nuova «era» affianco all’antica. Nel ’68 l’immaginazione non andò al potere; nessuno fu, perciò, nelle condizioni di porre mano ai calendari; eppure, allora, la convinzione di poter iniziare un modo nuovo di vivere fu ugualmente forte e diffusa.

Questa linea, di cui si sono menzionati sparsi e disomogenei lacerti, appare lontana le mille miglia dal modo di pensare e sentire odierno. Quando l’imperativo principale diviene, ovunque, quello di cercare di tappare i buchi, lo sguardo verso una novità che segni un reale (o vagheggiato) cambiamento non ha più ragion d’essere. L’idea di un repentino mutamento collettivo verso il meglio non ha ormai cittadinanza neppure nella sfera dei sogni: I don’t have a dream. L’attesa del nuovo non ha più corso. È constatazione inoppugnabile che in alcuni frangenti storici appaiano giusti e indiscutibili convinzioni e comportamenti giudicati, in altre epoche, assurdi e inaccettabili. Nel mondo contemporaneo, per rendere evidente tutto ciò, basta appellarsi alla memoria individuale. Per provarlo non c’è più bisogno del metro lungo dello storico, è sufficiente il decimetro della cronaca.

Il mutamento continuo, secondo una logica per nulla paradossale, ha evacuato l’idea che si possa essere protagonisti di una svolta capace di segnare l’ingresso in un’epoca davvero nuova. Osservata da questa angolatura, la produzione tecnologica è paradigmatica. La definizione chiave per affermarsi sul mercato è giudicare obsoleto quanto si era prodotto poco prima. La qualifica è indicativa: anche qui non si guarda in avanti, si giudica la novità voltandosi indietro. Non si afferma che il prodotto nuovo è davvero tale, si sostiene che esso ha fatto invecchiare quello precedente. Del resto, il sigillo dell’effimero è impresso, per definizione, anche sul nuovo prodotto destinato, in tempi rapidissimi, a diventare a propria volta obsoleto. La legge del mercato ha fatto sì che mutamenti, che un tempo sarebbero stati giudicati epocali, vengano percepiti ora all’insegna del provvisorio. Le tecnologia crea le condizioni in virtù delle quali ciascuno, nell’arco breve della sua vita, assiste a una serie inesauribile di tramonti.

L’altro estremo del «progresso tecnologico» sono le discariche. Guardandosi attorno, un Qohelet contemporaneo avrebbe molti motivi a cui ispirarsi. Oggi, nella vita delle persone, vi è l’assillo quotidiano di liberarsi, nell’ordine, di giradischi, macchine da scrivere elettriche, computer lenti e pesanti, schermi non piatti, telefonini di penultima generazione e così  via all’infinito. Alle cose nate per diventare al più presto possibile obsoleto non è concesso il ricovero dorato dell’antiquariato (al più può essere ospitato da qualche isolato collezionista). 

La perennità del mutamento ci ha tolto l’idea di futuro. Chi, come l’attuale governo, prospetta di uscire dalla crisi attraverso un rilancio della produzione legato alla logica del mercato, lo fa, di norma, per pura retorica. Tuttavia, se ci riuscisse, contribuirebbe a rendere ancor più forte in noi  l’idea di vivere nel tempo della caducità universale. Il suo successo ci consegnerebbe ancor di più a un’economia che vive di effimero. Dante, a proposito della Fortuna, parla di una temporalità ciclica, senza telos (fine)  e perciò in continuo mutamento. Nell’Inferno si legge al suo riguardo: «Le sue permutazion non hanno triegue: / necessità la fa esser veloce» (VII, 87-88). Così avviene anche per la produzione e per il mercato. La tecnologia, come la Fortuna, è  legata a un tempo in cui le continue permutazioni potenziano al massimo il senso della caducità universale. Esso penetra dentro ciascuno di noi. Anche le inquietudini interiori nella nostra società sono diventate liquide: scappano tra le mani lasciando per breve tempo qualche umidore sui polpastrelli.

In questo contesto, la sfida forse più grande sta nel salvaguardare una realtà che duri. Questo fronte non è rappresentato dai cosiddetti valori non negoziabili (espressione in cui la negazione è già di per sé indicativa della fragilità di una fondazione che vive solo sulla contrapposizione). La sua dimensione più autentica la si trova in due parole (ovunque minacciate) che rappresentano due facce di una stessa medaglia: fiducia/fedeltà. L’impegno personale e interpersonale che dura nel tempo, in quanto si alimenta in virtù del suo trascorrere, si pone agli antipodi dell’obsoleto. Forse oggi non vi è nulla di più difficile e, perciò, nulla di più necessario, che incontrare persone le cui esistenze sono improntate a questo stile di vita.

Piero Stefani

 

371. L’epoca dell’obsoleto (29.01.2012)ultima modifica: 2012-01-28T10:00:00+01:00da piero-stefani
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