358. Tre interpretazioni rabbiniche della vita

Il pensiero della settimana n. 358

 

 Attraverso giochi di assonanze consentiti dall’ebraico, antichi rabbi giunsero a proporre un sorprendente commento a uno dei versetti iniziali del Cantico dei cantici. Da esso traggono infatti motivo di ringraziamento a Dio a causa di un particolare tipo di ignoranza che contraddistingue il genere umano: «Per questo le giovani ti amano” (Ct 1,3), poiché hai nascosto loro il giorno della morte».

A proposito di questo detto, il grande maestro ebreo contemporaneo Y. Leibowitz afferma che, se l’uomo conoscesse il giorno della propria morte, dal punto di vista psichico non potrebbe sopravvivere e la sua non sarebbe una vera vita; è infatti impossibile reggere il sentimento generato dalla conoscenza del giorno della propria morte. Rispetto all’esistenza nulla è più benefico di quell’ignoranza. Perciò noi esprimiamo il nostro amore per il Signore per la grande bontà che ci ha mostrato nascondendoci il giorno della nostra morte.

L’atto di morire non crea uguaglianza tra gli esseri umani; la fine della vita si presenta, nella varie persone, in modi tanto differenti da essere piuttosto fonte di disparità. L’unico fattore che ci rende tutti uguali è, forse, proprio quello a cui ci si è fin qui riferiti. Da quando si ha l’uso della ragione ogni essere umano sa di dover morire, ma a tutti è, in sostanza, precluso di conoscere il giorno preciso della propria morte. Se fin dal principio ci fosse nota quella data, tra le creature umane sussisterebbero differenze radicali dotate di ampie e inaccettabili ricadute anche sul piano comportamentale. Questa particolare ignoranza è dunque per noi fonte di benedizione.

Lo sbocciare di  una vita è paragonabile all’atto di iniziare a scrivere un libro di cui non si sa preventivare la lunghezza. All’altro estremo dell’esistenza nessuno è così anziano dall’escludere di poter aggiungere ancora un anno alla propria vita, anche se sa che è del tutto improbabile che ne viva altri dieci ed è certo che non gliene saranno dati in sorte altri venti. All’ora del tramonto l’orizzonte dell’ignoranza si è fatto più angusto e tuttavia esso in qualche modo persiste e la sua presenza ci fa continuare a vivere. La controprova di ciò sta nel fatto che chi sa di avere su di sé una sentenza di morte certa – naturale o artificiale che sia – entra in una sfera di esistenza imparagonabile con  qualsiasi altra.

Questo vale non solo per il vivere ma anche per il dare la vita. Si racconta che un pagano sfidò un rabbi, Yehoshua’ ben Qorchah, rispetto alla concezione biblico-ebraica di Dio. Gli domandò: «Non dite forse che il vostro Signore conosce il futuro?». Avendo avuto una risposta affermativa, incalzò: «Ma perché allora quando vide la corruzione dell’umanità e decise di mandare il diluvio disse di essersi pentito di aver fatto l’uomo e se ne addolorò in cuor suo (cfr. Gen 6,6)?». Raccolta la provocazione, il maestro dì Israele chiese a sua volta al pagano se gli fosse nato un figlio. Avendo avuto risposta positiva, gli domandò cosa avesse fatto in quella circostanza. L’interlocutore disse che si era rallegrato e aveva indotto anche altri a rallegrarsi. Gli replicò allora il rabbi: «e non sapevi che alla fine sarebbe morto?». E quello: «nell’ora dell’allegria l’allegria; nell’ora del lutto il lutto». Il rabbi concluse: «Così avvenne anche per il Santo, benedetto egli sia».

Questo vertiginoso antropomorfismo ci comunica la profonda verità connessa a  un’ignoranza che ci fa vivere e ci fa gioire senza farci cadere nell’illusione dei «vaghi inganni». L’ultima parola, quella decisiva, non sempre spetta alla fine. La gioia di Dio che dichiara buone le sue creature appena venute alla luce esprime la convinzione che c’è un nuovo spazio per il possibile. Questa apertura è di per sé fonte di allegrezza: è di nuovo dato ricominciare e quest’inizio (bereshit «in principio») è posto all’insegna della gioia. Il possibile è ciò che conosciamo solo a grandi linee e di cui ignoriamo le determinazioni. Se ne fossimo a conoscenza molti sarebbero i motivi di angoscia; di contro questa particolare ignoranza ci riconsegna alla gioiosa innocenza dei primi progenitori che non si erano ancora accostati all’albero della conoscenza del bene e del male.

Un’altra storia rabbinica racconta di un padre ricco, assennato e rispettabile, che fece un testamento molto strano; esso conteneva una clausola sconcertante: il figlio avrebbe potuto godere della sua eredità solo quando sarebbe diventato pazzo. Per risolvere l’enigma, il beneficiario si risolse a consultare un illustre maestro, si trattava  proprio di Yehoshua‘ ben Qorchah del racconto precedente. Lo trovò in casa che camminava a quattro gambe con una corda in bocca e un nipotino sulle spalle. Gli fu posta la domanda riguardante l’eredità. Sorrise e, alludendo alla scena appena vista dai suoi ospiti, disse che era semplice cogliere il significato di quella clausola: il figlio avrebbe potuto godere dell’eredità quando a sua volta fosse diventato nonno. 

La nascita e i primi anni di vita di un nipote, maschio o femmina che sia, rendono pazzi i nonni perché riaprano di nuovo a loro lo spazio di un possibile da cui è escluso ogni rimpianto. Qui non c’è spazio per il rammarico per quanto un tempo si  era in grado di fare e che ora è precluso dal cumulo degli anni; al contrario compiere pazzie è richiesto proprio dal come si è qui e ora e non importa se a fine giornata le giunture saranno indolenzite. L’essere bimbi piccoli è un dono perché essi, nel loro aver bisogno di altri, dischiudono a questi ultimi nuove possibilità di vita; ciò vale  tanto per genitori  quanto per i nonni.

 

Piero Stefani

358. Tre interpretazioni rabbiniche della vitaultima modifica: 2011-10-29T06:00:00+02:00da piero-stefani
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