359. I Pini di villa Borghese

Il  pensiero della settimana, n. 359

 

Era un’estate di molti anni fa. Da ragazzi si partecipava a una caccia al tesoro. Tra i concorrenti vi era una squadra agguerrita. Era in testa; ma, proprio alla fine, scivolò su una buccia di banana e la vittoria, a sorpresa, toccò a un altro gruppo. A far perdere i favoriti fu una sola domanda. Era formulata così: «Di chi sono i Pini di Roma?». Trascurando la maiuscola e ignorando la storia della musica, i potenziali vincitori scrissero sul biglietto: «del Comune». Suscitarono ilarità e persero la gara. Per quanto non appartenesse al novero dei suoi compositori preferiti, già allora, lui sapeva che la risposta giusta era: Ottorino Respighi. In tal modo gli sfavoriti ottennero la vittoria proprio sul filo di lana.

Si ricordò di quel vecchio episodio e delle note di Madama Dorè inserite dal compositore nel suo poema sinfonico, quando, in un tiepido primo pomeriggio di autunno, si trovò a passeggiare a Villa Borghese. La conosceva bene; tuttavia anche il noto, ogni tanto, riserva sorprese.

Vi sono sensazioni che si percepiscono con maggior vivezza la prima volta che si vede un luogo. In quei momenti vi è la gioia della scoperta e si colgono particolari che spesso sfuggono a chi è già familiare con quel posto. Quando quel sito rientra nel novero delle abitudini, l’intensità scema. Tuttavia nella ripetizione il cumulo delle percezioni, accatastate a poco a poco quasi senza accorgersene, penetra ugualmente dentro fino a far parte di noi stessi, Per rendersene conto basta che la consuetudine cessi; allora si comprenderanno subito quanto quei luoghi, all’apparenza trascurati, ci fossero, in realtà, presenti. Quando, dopo un lungo stacco, si ritorna in una città che ben si conosce, si prova uno stato d’animo paragonabile all’atto di sfogliare un album di foto di famiglia: la prossimità evidenzia la distanza e viceversa. La differenza tra le due esperienze è, peraltro, evidente: la familiarità con i luoghi è riacquistabile cosicché il passato torna a essere presente; di contro i volti infantili o giovanili visti nelle foto non possono essere più schiodati da un irrecuperabile ieri.

Le due ora descritte non sono le uniche possibilità offerteci. A volte ci viene incontro un’altra esperienza, forse la più intensa fra tutte. Essa avviene quando ci si trova in un posto ben conosciuto e, all’improvviso, lo si coglie come se fosse la prima volta. La vivezza si incontra allora con la solidità. In queste circostanze, la fiamma promana da un antico, robusto ciocco, non da un rapido bruciar di frasche.

Fu così anche quel giorno, quando si accorse, in modo nuovo, di quel che già sapeva. Comprese, in maniera repentina, quanto alti, svettanti e secolari, fossero alcuni pini di quel parco grande come una cittadina. Capì che il loro ombrello non già sfidava il cielo, bensì lo abitava. Ciò avveniva grazie a quei lunghi tronchi nudi che reggevano un superno espandersi; un segreto negato alle conifere. Le note della filastrocca infantile, sontuosamente orchestrate da Respighi, lì risuonarono abissalmente lontane dal vero. I pini attestavano, infatti, una placida immobilità che costituiva una perfetta antitesi alla rumorosa irrequietezza dei bambini.

Nella vita capita di essere felici a motivo di una profonda pace interiore che ci pervade. Non è la felicità più grande. Essa, infatti, è priva del sigillo dell’incontro. Si è pieni, ma si è soli. Anzi, si è pieni proprio perché si è soli. Quella gioia ammicca alla divina indifferenza. In ciò trova la propria grandezza e il proprio limite. I pini di Villa Borghese che distendono i loro rami a decine di metri al di sopra dell’ osservatore sono un simbolo coerente di tale felicità.

Molto più elevati del modesto colle su cui giace l’enorme palazzo del Quirinale, i pini hanno guardato dall’alto in basso il succedersi di papi, re, presidenti. Non si sono lasciati turbare da crisi di governo, scioglimento di Camere e consultazioni. Rimasero imperturbabili persino quando potenti bombardieri sganciarono, or sono quasi settant’anni, i loro carichi di morte su alcuni quartieri della capitale: chi poteva avere interesse a colpire zone verdi? Come potrebbero ora, che sono più vecchi e alti, essere turbati da crisi finanziare e politiche che stanno ponendo fine a un governo-non-governo restato in carica troppo a lungo?

Come tutti i vegetali, neppure i pini sono immortali. Una malattia può farli deperire; la mancanza di sapienti potature infiacchire. Di fronte a un’aggressiva sega che li assalisse, essi troverebbero difesa solo nella passività delle loro enormi dimensioni, le quali, però, non li metterebbe del tutto al sicuro di fronte al raro, ma non impossibile, scatenarsi di venti di eccezionale violenza. La loro relativa fragilità li rende un simbolo con cui ci si può umanamente confrontare; ipotesi preclusa se si trattasse di un picco roccioso che può terminare in una guglia ma non allargarsi in un ombrello verde e vivo.

La felicità non sta né nei giochi di infanzia, né nell’esercizio di un potere scandito dal succedersi di papi, re, presidenti o governi. Sta forse nell’alta, tranquilla pienezza di chi si pone al di sopra di quanto passa pur sapendo che passerà anche lui? Si trova forse nell’accettare la stabilità del passare simboleggiata da quei pini? Dire di sì è risposta alta almeno quanto lo sono quelle chiome che, nelle giornate di brezza leggera, danno serenità per il semplice fatto di essere osservate. Si tratta di una gioia che trova il proprio baricentro nella capacità di relativizzare quanto va effettivamente consegnato a quella sfera. In ciò vi è del vero. Eppure… Eppure a quegli alberi e alla felicità di cui sono simbolo manca qualcosa: la capacità di curvarsi. L’alternativa più autentica sta nello scegliere tra l’atto di svettare e quello di inclinarsi verso gli altri. Anche in questo caso capita di essere felici; ma ciò non ha mai luogo quando si è soli. Nel curvarsi reciproco la profondità si trasforma in altezza.

Piero Stefani

 

 
359. I Pini di villa Borgheseultima modifica: 2011-11-05T09:00:00+01:00da piero-stefani
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