336 Il culto razionale (17. 04. 2011) [1]

Il Pensiero della settimana n. 336

Ci Sono al mondo realtà a cui non siamo estranei, ma che non siamo in grado di comprendere davvero. O meglio, il nostro tentativo di capirle attraverso l’intelletto manifesta un atteggiamento equivoco in quanto tende a ricondurre alla nostra misura quel che ci trascende. Cercare di capire, come diceva Hannah Arendt, è il massimo imperativo etico (cfr. pensiero n. 35). E’ così. Tuttavia, a volte tentare di com-prendere significa presumere di aver braccia capaci di stringere il mondo entro cui siamo. Nessun contenuto è capace di abbracciare il proprio contenitore.

Solo chi tenacemente si impegna a capire sa, alla fine non al principio, che non gli è dato comprendere fino in fondo. Come direbbe Kant, il riconoscimento dei limiti è sia fondazione del proprio conoscere sia ammissione della nostra incapacità di comprendere il fondamento primo e ultimo di ogni cosa.

La fede si conforma a questa dinamica soprattutto quando si trova di fronte al «mistero». Si tratta di un termine da impiegare con grande cautela. Nulla è più scontato (e quindi meno misterioso) di ricorrere con inopportuna frequenza a quella parola, applicandola, a maglie larghe, alla vita e alla morte. Vi sono però momenti in cui è necessario appellarsi al mistero. Anche qui il riferimento, però, avviene alla fine e non già all’inizio. È quanto fece Paolo. Chiamando in causa se stesso e aggrappandosi alla sua stessa lacerazione interiore, egli aveva a lungo cercato di capire perché  la gran parte del suo popolo non avesse accolto l’Evangelo: alla fine (non in principio) giunge a mistero.  Allora, rivolgendosi ai «santi» (per grazia) della Chiesa di Dio che è in Roma afferma: «Non voglio infatti che voi ignoriate questo mistero, affiche non siate saggi/intelligenti (phronimoi) da voi stessi: l’indurimento di una parte d’Israele…» (Rm 11,25).  Non importa proseguire nei contenuti specifici della frase. Quanto preme è sottolineare che Paolo non svela un mistero perché ha avuto visioni apocalittiche che, dall’alto, gli rivelano tutto quanto si distende tra l’inizio e la fine.  Egli  attinge al mistero in virtù di un suo intimo tormento e del suo argomentare dispiegato per quasi tre capitoli della lettera (Rm 9-11). Una volta che lo ha intravisto, ammonisce i propri fratelli nella fede a non essere saggi solo  grazie alle loro forze. Ci sono momenti in cui si è chiamati ad accogliere un sapere che travalica la nostra comprensione: sono quelli in cui si sfiorano gli abissi di Dio.

Il «mistero» non catturabile vieta di ricondurre l’«altro» nell’ambito dei propri schemi mentali. È in questa luce che va letta la celebrazione, proposta da Paolo, della profondità di sapienza e di conoscenza di Dio che rendono insondabili i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie (Rm 11,33). Dio è la garanzia massima che impedisce di risolvere l’«altro» (esemplificato, in questo caso, dal popolo di Israele) nell’ambito della propria comprensione. Questo parziale accesso ai misteri di Dio mette a tacere la nostra comprensione senza annullare il nostro impegno a capire. Una parola per riferirsi a questo status  è il termine «grazia».

Il compito della «grazia» non sta solo nell’immergerci nei misteri di Dio di cui  essa stessa fa parte, il suo scopo è anche quello di farci incamminare verso l’«altro» riconoscendolo irriducibile a noi stessi. Allora diviene compito imprescindibile da parte di ciascuno cercare di discernere quanto è giusto. Nessuno cammina sulla via della giustizia quando mette il bavaglio alla propria intelligenza.

Nella lettera ai Romani, subito dopo aver celebrato i misteri più profondi di Dio,  vi è una esortazione che riguarda l’«intelligente saggezza (phronesis)» di ciascuno. Il consegnarsi alla grazia diviene presupposto per capire e discernere al fine di operare il bene: «vi esorto fratelli per le misericordie di Dio di offrire i vostri corpi [in] sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, il culto razionale (loghikē) di voi» (Rm 12,1). Il corpo è il luogo delle relazioni. Nessuno può entrare in rapporto con gli altri a prescindere dalla via somatica. Non vi è comunicazione che non passi attraverso il corpo, per questo esso deve essere vivo. Il sacrificio santo gradito a Dio nella vita dei credenti è il «culto razionale»; vale a dire è l’agire sorretto dal discernimento. A differenza di quanto spesso si traduce, in questo passo non vi è nulla di «spirituale», né ci si pone in antitesi ad antiche vittime sacrificali sgozzate e bruciate nel Tempio di Gerusalemme. Semplicemente non ci si misura con esse, né per confermarle, né per smentirle. Qui non c’è lo spirito contrapposto alla carne; c’è invece il discernimento di chi è chiamato a compiere il bene nei confronti degli altri e a riconoscere che gli altri sono capaci di un bene che lui non è in grado di compiere.

Chi accoglie in sé la grazia è chiamato a trasformarsi, ancor più che ad accettare di essere trasformato. In proposito le parole di Paolo non lasciano adito a dubbi: «trasformatevi con il rinnovamento della mente per discernere voi stessi cosa sia la volontà di Dio, il bene, la cosa gradita e perfetta» (Rm 12,2). Per fare il bene occorre pensare in modo nuovo. Per questo ogni coercizione esercitata sul pensiero diminuisce il bene presente nel mondo e deprime il «culto razionale» gradito a Dio.

Nella fede il fondamento primo e ultimo del bene è la volontà di Dio. La cosa gradita e perfetta è il culto che chiama ciascuno a discernere nella propria vita cosa significhi compiere la volontà di Dio. Il sacrificio del corpo vivente è lo sforzo del discernimento: è vita e non già morte. Il cercare di capire non è solo imperativo etico, è anche culto a Dio gradito. È qui che abita la grazia che viene da Dio. L’autorità può esortare, ma non le è concesso di prendere il posto del «culto razionale» che ognuno è tenuto a compiere nella sua vita quando  in lui abita davvero il santo assillo di capire quale sia la volontà di Dio che lo chiama verso l’«altro».

Piero Stefani

 

 

 



[1] Riprendo parte dell’intervento,  Santi per grazia, giusti per opere svolto nella Chiesa di S. Carlo al Corso di Milano il 15 aprile.

 

 

336 Il culto razionale (17. 04. 2011) [1]ultima modifica: 2011-04-16T09:00:31+02:00da piero-stefani
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