323. Memoriali italiani

Il pensiero della settimana, n. 323 

 

Da un anno, nella città di Roma, è presente una polarità urbanistica quasi impercettibile.  Uno dei due poli è, infatti, di un’evidenza assoluta, l’altro è piccolo e diffuso.

Il primo riferimento è costituito dall’Altare della Patria, la parte più conosciuta dell’immenso Vittoriano. Il monumentale edificio, progettato da Giuseppe Sacconi, venne, dopo decenni di lavoro, inaugurato da Vittorio Emanuele III esattamente un secolo fa, a cinquant’anni dall’Unità, (tuttavia fu completato solo molti anni dopo). L’Altare fu progettato nel 1906 da Angelo Zanelli. L’atto che lo consacrò, la presenza del Milite Ignoto, risale invece al 4 novembre 1921. La salma fu scelta da Maria Bergamas, madre di Antonio. Quest’ultimo, dopo aver disertato dall’esercito asburgico, cadde in combattimento tra le fila italiane: il suo corpo non fu mai ritrovato.  Nella sua veste definitiva l’Altare della Patria si trova perciò stretto tra due estremi: uno esterno, la gigantesca statua bronzea di Vittorio Emanuele II[1] e uno sprofondato nelle viscere interne del mausoleo, dove giacciono i resti mortali dell’anonimo soldato.

Per la retorica che presentava la «Grande Guerra» come un processo redentivo a definitivo completamento dell’Unità, il milite che, rappresentava tutti, doveva essere scelto da una madre irredentista. L’immane carneficina della Prima guerra mondiale esigeva, comunque, che l’«eroe», contro  ogni regola celebrativa precedente, restasse ignoto. Nel suo libro A partire da ciò che resta Elena Pirazzoli richiama, a questo proposito, il parere di Bruno Tobia relativo alla straordinaria invenzione della simbologia del Milite Ignoto. Dovuta alle conseguenze terrificanti e impreviste della «guerra civile europea», quella figura fece sì che «il Corpo di Uno» diventasse il «corpo di tutti».[2] La lista dei nomi segna piuttosto una dimensione localistica: i monumenti ai caduti presenti in ogni borgo della nostra penisola. L’anonimato divenne, perciò, funzionale alla rappresentatività collettiva. Il martire della guerra, già tecnologica, dei primi del Novecento perde il nome al fine di rappresentare il corpo collettivo di tutti coloro che sono caduti per la Patria. Una salma però doveva esserci per consacrare in modo definitivo quell’Altare, divenuto fino a oggi luogo ufficiale della liturgia secolarizzata che celebra l’unità statuale della nazione.

Il secondo polo, assai più recente, risale al gennaio 2010. Si tratta di trenta  Stolpersteine (pietre d’inciampo).  Esse derivano da un’intuizione dell’artista tedesco Günter Demnig volta a ricordare i deportati razziali, politici e militari. L’idea di Demnig risale al 1993 quando l’artista fu invitato a Colonia per un’installazione dedicata alla deportazione di cittadini rom e sinti. All’obiezione di un’anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato rom, l’artista decise di dedicare tutto il suo lavoro successivo alla ricerca e alla testimonianza dell’esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, rom, omosessuali. Le prime Stolpersteine risalgono al 1995, a Colonia; da allora ne sono state installate più di 22.000 in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e Belgio.

L’artista sceglie il marciapiede prospiciente la casa in cui hanno vissuto uno o più deportati e vi installa altrettante «pietre d’inciampo», sampietrini del tipo comune e di dimensioni standard (cm. 10×10). Li distingue solo la superficie superiore, a livello stradale, di ottone lucente. Su di essa sono incisi: nome e cognome del deportato, anno di nascita, data e luogo di deportazione e, quando nota, data di morte.

L’inciampo non è fisico ma visivo e mentale; costringe chi passa a interrogarsi su quella diversità e gli attuali abitanti della casa a ricordare quanto accaduto in quel luogo e a quella data, intrecciando continuamente il passato e il presente, la memoria e l’attualità. Le Stolpersteine sono un segno concreto e tangibile, ma discreto e antimonumentale, che diviene parte della città, a conferma che la memoria non può risolversi in appuntamento occasionale e celebrativo, ma è chiamata a costituire parte integrante della vita quotidiana. Con il coinvolgimento di vari enti e istituzioni e in collaborazione con sei Municipi della città, a Roma, a cura di Adachiara Zevi, il 28 gennaio 2010 sono state collocate le prime trenta «pietre di inciampo» presenti in Italia (il 12 e il 13 gennaio 2011 ne sono state collocate altre 54). In questo primo anno non è mancato qualche gesto vandalico.

Se confrontiamo i due esempi fin qui citati troviamo tra essi un’antitesi perfetta: là un  corpo senza nome, qua nomi senza corpo; là monumentalità, qua la descrizione di un quadrato di 100 cm2 a livello del suolo; là morte in battaglia qua deportazione; là solennità cerimoniale legata a un luogo unico qua la quotidianità che fu delle vittime ed è degli abitanti.

Le catastrofi senza precedenti del Novecento hanno imposto – e in parte ancora impongono – di inventare forme inedite di ricordo.

Piero Stefani

 

 

 




[1] Affidata a Enzio Chiardia nel 1889 e completata da Emilio Gallori nel 1911.

[2] Cit  in  E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Reggio Emilia  2010 (pp. 253, € 18,00), p. 17. Il libro è ricco di molti altri aspetti purtroppo trascurati da questo articolo, concentrato sull’Italia.

323. Memoriali italianiultima modifica: 2011-01-15T09:00:00+01:00da piero-stefani
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