314 – Rassegnazione e appartenenze (14.11.2010)

Il pensiero della settimana, n. 314 

 

Vi è un modo rassegnato di vivere  la propria appartenenza. Ciò avviene quando  si è in una situazione e ci si resta, senza entusiasmo, per il solo fatto di non riuscire, per mancanza di coraggio, di risorse o per motivi più oggettivi, a trovare una collocazione migliore. La rassegnazione ha luogo quando sono i fatti e gli avvenimenti (grandi o piccoli che siano) a guidarci. Allora si abdica alla facoltà di scegliere. Affermare il ruolo insostituibile della decisione non equivale affatto a sostenere il primato del cambiamento. Si possono ripetere ogni giorno le stesse azioni senza che vi sia il benché minimo barlume di rassegnazione: è così quando, giorno dopo giorno, si pronuncia il proprio sì a quanto si sta facendo, vale a dire quando non si agisce in una determinata maniera per  la sola ragione di averlo già fatto.

Nel lessico corrente, rispetto a un certo tipo di agire, si dice spesso che «bisogna [o tocca] farlo». In simili circostanze grande è il divario se si dà il proprio assenso a quanto si è obbligati a fare, oppure se si vive tutto ciò come una costrizione imposta dall’esterno. La nostra capacità di mutare il corso delle cose è limitata; ben più ampia,  è, invece,  la facoltà, non rassegnata, di aderire positivamente alla condizione in cui ci si trova. Percorrere questa via arricchisce di senso quanto si sta compiendo. Per inoltrarsi in questo cammino occorre, però, essere dotati di molta disciplina interiore. Ai nostri giorni riusciamo ancora a capire la validità di questo tipo di procedere; ci è invece molto più difficile  praticarlo. Un senso di impotenza e di impoverimento ci sta consumando l’animo. Di frequente, per restare dove si è, la rassegnazione risulta opzione più praticabile di una scelta attiva costretta a misurarsi  con giorni per i quali, assieme a Qohelet, si è tentati di dire «non ci provo alcun gusto» (Qo 12,1).    

  Ci chiediamo: come stanno le cose per l’appartenenza, qualora la si abbia, a una comunità religiosa? Vi è un modo rassegnato di restare dove ci si trova. Si rimane lì per la sola ragione che non vi è alcuna garanzia che altrove si stia meglio. È un atteggiamento disincantato, antitetico a quello del neofita entusiasta o dell’estremista fanatico, ma anche assai lontano dall’ardore indomito, e quotidianamente messo alla prova, del fedele maturo. Si rimane lì per mancanza di prospettive più soddisfacenti. In una stagione di smottamenti geologici, etici, sociali e politici, l’anfratto consueto appare, in fin dei conti, un porticciolo più sicuro di altri. Non si pensi che l’atteggiamento sia solo dei nostri tempi. Per quanto venato per lo più di coloriture scettiche, lo si è registrato altre volte, almeno in ambienti in cui si manifestava un qualche pluralismo religioso.

Nella Bagdad del X secolo, diversa e più civile dell’attuale, visse Abu Salaiman, detto il «Logico»;  a lui viene attribuito il racconto che ha come protagonista uno scettico di origine iraniana. Quest’ultimo sostenne che quando si mise a paragonare tra loro  varie religioni non  riuscì a trovarne una migliore dell’altra, né gli era dato di aderire contemporaneamente a più comunità religiose. Gli chiesero allora per quale ragione egli continuasse a rimanere musulmano. Cominciò a dire  che, prima di tutto, quella era la religione in cui era nato e cresciuto, perciò per lui  essa conservava  una particolare fragranza. Tuttavia il discorso non si fermò qui. Per rispondere alla domanda propose infatti  un elaborato apologo. Raccontò di un uomo entrato in un caravanserraglio per cercare riparo dai cocenti raggi del sole. Gli fu assegnata, di ufficio, una stanza. All’improvviso il tempo si rannuvolò e si mise a piovere a dirotto. Nella stanza cominciò a gocciare. Cercò di spostarsi nelle camere attigue:  tutte erano nelle stesse condizioni. Guardò dall’altra parte dell’edificio, ma il cortile era ridotto a un acquitrino e nessuno garantiva che di là la situazione fosse migliore. Decise perciò di rimanere nella stanza che gli era stata data, in attesa che il tempo diventasse migliore: «Così faccio anch’io: sono nato senza saperlo; poi i miei genitori mi allevarono in questa religione, senza che abbia avuto prima la possibilità di esaminarla. Poi, quando l’ho esaminata più da vicino, ho visto che procede come le altre e ho visto che era meglio per me rimanere in essa anziché abbandonarla».[1]

Ecclesia semper reformanda est. Quando questa massima, da enunciato generale e astratto, diviene pratica di vita, si è nelle condizioni di riparare la propria stanza. In tal caso, invece di spostarsi altrove, ci si impegna a stendere teli sul soffitto e a incanalare verso l’esterno l’acqua piovana. L’impresa è sempre stata ardua. Persino Francesco, sulle prime, non la comprese e si diresse verso la diroccata chiesetta di San Damiano. Nell’Italia di oggi già il restauro e la conservazione del patrimonio edilizio è diventata un’impresa eccedente le forze in campo. Ancor più improbabile è riuscire a trasferire l’operazione in direzione di una Chiesa fatta di pietre vive (cfr. 1Pt  2,4-5). Restiamo inzuppati là dove siamo, in attesa di tempi migliori. Tuttavia rispetto all’apologo  raccontato da Abu Salaiman, vi è una differenza: dalle nostre parti i gestori dei caravanserragli (compreso quello ferrarese) ci dicono che le infiltrazioni d’acqua sono pure fantasie: la stanza è confortevole e asciutta, sicuramente la migliore fra tutte. Ci sia almeno concesso di protestare e di indicare che l’ipotesi di una Pompei ecclesiale non è poi tanto  peregrina.

Piero Stefani




[1] Cit. i n K.-J. Kuschel, «L’ebreo, il cristiano e il musulmano s’incontrano?» «Nathan il saggio» di Lessing, Queriniana, 2006.p 217.

314 – Rassegnazione e appartenenze (14.11.2010)ultima modifica: 2010-11-13T13:28:55+01:00da piero-stefani
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