304 – Giornate ebraiche (05.09.2010)

Il pensiero della settimana, n. 304

L’ultima comunicazione udita mi ha fatto venire in mente di cominciare così: parecchi anni fa, mi furono fatte vedere delle foto di alcune scritte presenti nella biblioteca del convento di San Giuseppe a Ferrara. Sulle pareti, dipinte su medaglioni, ci sono iscrizioni ebraiche. Mi fu chiesto di tradurle. Qualcuno ipotizzava non so quali misteriosi rapporti tra frati agostiniani e comunità ebraica. Nulla di tutto ciò. Non fu difficile capire di che cosa si trattasse: erano brani tratti dal Qohelet (un tempo conosciuto anche come Ecclesiaste). Non ho tenuto le trascrizioni e non ricordo, parola per parola, il loro contenuto. Erano passi più o meno di questo tenore: «Ancora un avvertimento, figlio mio: non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo» (Qo 12,12). Seguivano vari ammonimenti, sparsi per tutto questo piccolo-grande libro biblico, relativi alla labilità della memoria.
Il Qohelet fa capire quello che già sappiamo anche indipendentemente da questo testo: la memoria è una realtà intrecciata in ogni momento con l’oblio. Tra di loro c’è un continuo corpo a corpo. Noi ricordiamo qualcosa soltanto perché dimentichiamo molto del resto. La sentenza più celebre del Qohelet proclama: «non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qo, 1,9). Perché? Perché qualcuno afferma «questo è nuovo», qualcun altro può replicare: «guarda che c’era già da tempo» (cfr. Qo 1,10). Una realtà, quindi, è dichiarata nuova solo a motivo della labilità della nostra memoria. Nel ricordo cosciente la maggior parte del passato collettivo e individuale, in effetti, è andata perduta.
La memoria che normalmente abbiamo delle storie delle nostre famiglie (del genere di quelle di cui abbiamo sentito parlare oggi relative agli anni della guerra) assomiglia a quella del Qohelet: diminuisce, con il trascorrere delle generazioni. Ci sono frammenti che passano dalla madre al figlio, dal padre alla figlia, ma ai nipoti giungono già più sbiadite, per poi dissolversi; a meno che non ci sia un discendente con propensioni archivistiche, ma, in questo caso, si tratterebbe di qualcosa di diverso da una memoria raccontata. Indulgo ancora a un riferimento personale. Rispetto agli argomenti di cui si è occupato Andrea Rossi sulla presenza delle truppe tedesche nel ferrarese, per la mia memoria familiare tutto si concentra in un nome senza cognome: capitano Bill. Non ho mai saputo altro di lui se non che era di stanza a Ruina e che mia mamma ebbe l’occasione di fungere da traduttrice tra la popolazione e il comando tedesco in vista di una serie di bisogni pratici. Pur essendo per famiglia e per convinzioni personali di tutt’altro orientamento, mia mamma conservava un sentimento di stima per questo ufficiale della Wehrmacht (credo). Non so come morì. Nel dopoguerra mia madre continuò ad avere rapporti con la vedova, se non erro, di nome Renate, la quale passò a casa nostra forse un paio di volte. Si scrivevano per Natale. Come si vede, sono ricordi labili, ma i miei figli non hanno neppure questi. Andrea Rossi, da storico, sa invece certamente molte cose sul quel comando tedesco di stanza a Ruina e forse potrebbe anche risalire al cognome del capitano Bill. Si tratta di un esempio molto piccolo ma sufficiente per attestarci la differenza tra memoria che si scolora e storia che recupera ed espone il passato.
Il 27 gennaio di ogni anno cade il Giorno della Memoria. Tuttavia, quando lo celebriamo, per sfuggire alla retorica, tendiamo, con buone ragioni, a renderlo sempre più il giorno della storia. Le due dinamiche, però, sono assolutamente diverse. Secondo l’approccio storico, per ricordare il passato dobbiamo richiamarlo il più puntualmente possibile, servendoci di quanti più documenti ci è dato di raggiungere. Questo è il mestiere dello storico, è giusto che sia così. Tuttavia, come si suol dire, la storia comincia là dove cessa la memoria: sono due dinamiche diverse. La memoria smarrisce i particolari, ma quando conserva quanto è fondamentale lo carica di emozioni. Evidentemente non è questa la ragione per cui il 27 gennaio è stato denominato Giorno della Memoria. Per dirlo in maniera molto sintetica, è stato chiamato così perché la storia non è imperativa. La ricostruzione storiografia non comanda nulla, né deve farlo. Il suo compito è descrivere e tentare di spiegare. Essa misura una distanza: il passato deve essere considerato davvero tale. […]
In definitiva, come possiamo celebrare il Giorno della Memoria? Attraverso la storia? Va da sé che quella storica è una forma di conoscenza fondamentale. Tuttavia memoria e storia sono due registri diversi. Soltanto che, per la buona ragione di sfuggire a una retorica impropria, ci appelliamo alla storia là dove bisognerebbe dar voce alla memoria. Qui però non si tratta della memoria che indebolisce ma di quella che impegna e comanda. A differenza della storia, la memoria può diventare voce imperativa. Per farlo va tenuta lontana da ogni inquinamento ideologico e da ogni strumentalizzazione di parte (componenti entrambe all’ordine del giorno nell’Italia odierna). Le storie che ci comandano perché ci fanno identificare con l’evento, sono quelle raccontate e testimoniate. […]
Al di là dei, problematici, intenti del legislatore nell’istituire il Giorno della Memoria , è lecito rinvenire due dinamiche nel celebrare la giornata: innanzitutto la memoria effettivamente diminuisce se non le si resta fedele; in secondo luogo per noi è sempre più difficile imbatterci in racconti imperativi, perciò si tenta di istituirli, ma così facendo si scivola in forti ambiguità: da un lato c’è il rischio di cadere in una retorica logora (e perciò controproducente), dall’altro vi è la propensione di dare spessore all’evento inclinandolo verso la ricerca storica, il che è altra cosa.
Vi è un’ulteriore ambiguità: la giornata tende a giustificare qualunque tipo di interesse legato all’ebraismo. Quasi a voler dire (anche qui non senza ragioni): non vogliamo trasmettere l’idea che tutto quanto riguarda gli ebrei si riduce alla Shoah. Giusto; tuttavia in questa operazione ci sono dei sottointesi non esplicitati. Prima di tutto opera la precomprensione che la Shoah sia solo un fatto ebraico, mentre è anche (e per certi aspetti soprattutto) un evento che riguarda i modi in cui gli «altri» si sono comportati nei confronti degli ebrei, nel male (per la massima parte), ma anche nel bene (i «giusti» che li hanno salvati); senza dimenticare il gran ruolo avuto dalla «zona grigia». Inoltre, come è noto, il giorno è dedicato alla memoria pure di altre deportazioni. Inoltre non andrebbe scordato che, nel corso dell’anno, ci sono altri momenti preposti a evidenziare l’apporto culturale ebraico.
L’iniziativa che stiamo svolgendo è collegata a una mostra, Le carte della memoria. Essa si spinge indietro fino a mettere in mostra reperti del Cinquecento e persino qualche incunabolo. La presenza ebraica a Ferrara (e in Italia) non va compressa sugli ebrei degli anni ’40. Giusto. Ma è lecito chiedersi: è opportuno rendere il 27 gennaio una giornata volta a ricordare tutto quanto c’è di ebraico, con il rischio di stemperare l’attenzione nei confronti dei modi in cui gli «altri» si sono comportanti nei confronti degli ebrei nel corso della Seconda guerra mondiale?
In Italia, come altrove, la prima domenica di settembre si celebra la Giornata europea della cultura ebraica. Per il nostro paese la data è, per così dire, un po’ «precoce»; tuttavia non è il caso di modificarla. Nel 2010 sarà dedicata all’arte ebraica. Nella pratica le cose (anche a Ferrara) stanno così: quella settembrina è un’iniziativa gestita da ebrei e rivolta in larga misura ai non ebrei, mentre questi ultimi si occupano di ebrei e di cose ebraiche il 27 gennaio. Non c’è un interscambio. Occuparsi di fondi ebraici della biblioteca Ariostea (come si è fatto poco fa), sarebbe stata un’iniziativa del tutto consona alla giornata della cultura europea; ma il processo di istituzionalizzazione delle giornate fa sì che anche in questo settore – come in molti altri – l’interscambio tra mondi culturali sia latitante. Ognuno procede per la propria strada. Per il mondo cattolico c’è poi un ulteriore passaggio (che nel 2010 ha goduto di un po’ più di risonanza a motivo della visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma): il 17 gennaio. Si tratta della giornata cattolica di approfondimento del dialogo con l’ebraismo. Anche qui vi è un’altra modalità di gestione. Di solito sono i cattolici che cercano, non senza fatica, qualche relatore ebreo. Ci troviamo di fronte a situazioni in cui la permeabilità culturale diventa ardua: l’interscambio ormai è difficile nella nostra società in cui sembrano sempre più prevalere elementi fortemente identitari in cui ognuno cerca di custodire il proprio angolino.
Piero Stefani

304 – Giornate ebraiche (05.09.2010)ultima modifica: 2010-09-04T11:19:00+02:00da piero-stefani
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