303 – La parola data (III e ultima parte) (18.07.2010

Il pensiero della settimana n. 303

  

Nel «Discorso della montagna» Matteo introduce una sezione in genere conosciuta con la non felice qualifica di «antitesi». Essa è  articolata  su una  formula riferita agli antichi comandamenti che suona così: «vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt  5,21-48). Tuttavia il «ma» (de) presente in questa espressione, non può essere in alcun modo inteso in senso avversativo. Antiteco al comando di non uccidere sarebbe  l’ammazzare e non certo l’astenersi persino dall’adirarsi o dall’insultare (Mt 5, 21-23). Quest’ultima proibizione infatti costituisce un rafforzamento e non già  una negazione del precetto. Lo stesso procedimento vale per tutte le altre proposizioni; tra essa vi è anche quella relativa al giuramento.

«Ancora udiste  che fu detto agli antichi:  “Non giurare il falso [cfr. Lv 19,12], rendi invece al Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurare affatto, né per il cielo che è il trono di Dio, né per la terra che è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme che è la città del grande re; non giurerai neppure per la tua testa, perché non hai il potere di fare bianco o nero un solo capello. Ma il vostro discorso sia: sì,sì; no, no; il di più rispetto a ciò viene dal maligno» (Mt 5,33-37).

Il rafforzamento del comandamento presente nelle parole del Vangelo riguarda il giurare il falso, non il giurare in quanto tale (atto lecito, ma non prescritto in modo diretto dalla Legge). La radicalizzazione del  comando non sta, quindi, tanto nel suo versante negativo che implica l’astenersi dal giurare; quanto piuttosto nel suo latro positivo di rendere affidabile di per se stessa la parola data. Il parlare dei discepoli va improntato a un «sì» o a un «no» privi di tentennamenti. Le particelle affermativa e negativa ripetute due volte ciascuno, oltre al modo di intenderle più consueto, hanno ottenuto un’altra interpretazione. Quest’ultima vede l’affermazione e la negazione come riposte a una domanda: «sì? sì», «no? no». In tal caso ci si troverebbe di fronte a un frammento dialogico in cui l’interrogato afferma e nega in nome proprio affidandosi alla nuda sincerità del rapporto interumano instaurato con il proprio interlocutore.

Nella lettera di Giacomo  si trova un passo molto simile a quello presente in Matteo. Esso, a differenza di quello evangelico, reintroduce in modo più netto l’ammonimento «sapienziale» relativo al giudizio: «prima di ogni altra cosa però fratelli non giurate: né per il cielo, né per la terra né con qualunque altra forma di giuramento, ma il vostro sì sia sì, il vostro no sia no, affinché non cadiate in giudizio» (Gc 5,12). Nel «Discorso della montagna» si dichiarava che tutto il «di più» viene dal maligno, espressione robusta per alludere  al fatto secondo cui ogni motivo che ti induce a non mantenere la parola data viene dal nemico.  Nel Vangelo, quindi, non si tratta tanto di esporsi al giudizio perché con o senza giuramento non si è all’altezza della parola data, quanto di indicare la via di una semplicità aliena da ogni doppiezza.

In modo più elaborato una posizione paragonabile la si trova in un passo talmudico. Si prende le mosse da una prescrizione contenuta nel libro del Levitico secondo la quale è richiesto di aver bilance giuste e pesi giusti «efa giusta e hin giusto» (Lv 19,36). Si tratta di due capacità di misure ebraiche, ma la parola hin è identica all’espressione che in aramaico vuol dire «sì». I rabbini allora si chiedono  che senso aveva precisare il riferimento allo hin visto che esso consegue direttamente dall’efa giusta e rispondono che questa specificazione deve avere un significato particolare vale a dire «il tuo sì (hin) deve essere un vero sì e il tuo no un vero no»(Talmud babilonese, Bava Mezi‘a, 49a). Un sì o un no ambivalenti  sono come unità di misura manipolate: falsano i rapporti.

 La sentenza  evangelica assume un carattere di particolare pregnanza quando ci si chiede se l’uomo, impossibilitato a giurare persino per la propria testa a motivo della sua «miseria» (con la sola forza della sua volontà non è in grado di mutare neppure il colore di un solo capello), abbia la «grandezza» di restar fedele al proprio «sì» e al proprio «no». Ma è appunto qui che si evidenzia la sinergia tra il senso della propria piccolezza e la capacità di restar fedeli alla parola data. Quest’ultima infatti non si poggia tanto su se stessi quanto sull’altro. Essere persone di parola significa che la parola data è nostra, essa infatti, per essere valida, deve essere libera e non già estorta; tuttavia nel momento in cui è formulata di fronte ad altri, la parola ci vincola a motivo dell’impegno assunto nei riguardi del proprio prossimo. Ogni persona ha il diritto di mutare idea, può ritornare sui propri passi, anzi a volte  gli è persino richiesto di mutar strada; ciò però non si dà rispetto a un «sì» o a un «no» dato davanti all’altro. Nei voti sacrali autonomamente emessi nei confronti di Dio, l’irrevocabilità  (come nel caso di Jefte costretto a immolare la figlia (Gdc 11,29-40) può condurre a esiti infausti; il discorso invece diviene tutto diverso se l’impegno è risposta a una richiesta che viene dal proprio prossimo («sì? sì») o in ogni caso è espresso di fronte a lui. La scelta è libera, ma non dipende solo da se stessi: è il prossimo a renderti responsabile. Si è nell’ambito della risposta e non in quello di un voto che si rivolge a Dio con un andamento ipotetico legato sempre a un  «se…allora». Forse è proprio  per questo che Matteo non  evoca il giudizio di Dio e addita piuttosto il rischio di un «di più» che cerca di smorzare, non di rado accampando giustificazioni, la radicalità del vincolo a cui ci si è sottoposti.

Il Signore giura per se stesso, ma lo fa in relazione a un promettere che lo lega alla proprie creature, vale a dire Egli si consegna a una dimensione in cui la fedeltà si esplica a un tempo nei confronti propri e dell’altro senza che esistano intermediari. La creatura umana può attingere a questa dinamica solo astenendosi dal giurare, vale a dire obbligandosi liberamente rispetto al proprio prossimo etsi Deus non daretur; il tacere il nome del Signore è un maniera per imitarlo all’interno della distanza infinita posta tra Creatore e creatura.

Piero Stefani

303 – La parola data (III e ultima parte) (18.07.2010ultima modifica: 2010-07-17T09:00:00+02:00da piero-stefani
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