305 – L’etica dei visitatori (12.09.2010)

Il pensiero della settimana n. 305

 

Le parole delle religioni

  

A volte sono in luoghi periferici o addirittura in vecchie ville isolate; altre volte sono agli angoli delle nostre strade in palazzi riadattati. È dato passarvi sotto anche più volte al giorno. Si conoscono persino i loro nomi, in certi casi inconsapevolmente beffardi: «Anni verdi», «Il focolare», addirittura «Paradiso»… In fondo, però, ciò vale, in nuce, anche per il loro nome comune: «casa di riposo». Nonostante la vicinanza, restano «mondi altri», almeno fino a quando non si ci si trova nelle circostanze di andarvi a visitare qualcuno. Tuttavia, a ora incerta, si è pure assaliti dal pensiero, per lo più presto allontanato, di dover finire lì i propri giorni.  Allora si è, non di rado, di fronte a dei «mai» riferiti a sé  ma anche  ai propri cari, che restano tali fino a quando quei luoghi non risolvono un problema del quale non sapremmo, altrimenti, come venire a capo. A questa forma consolidata nel tempo, in anni più recenti, se ne sono aggiunte altre. Per alcune di esse non si è osato trovare un termine italiano: è il caso dell’hospice. Qui i nomi sono più diretti: non si riesce troppo a fingere. Spesso si tratta di un nome e di un cognome: tutto lascia credere che siano quelli di una persona che ha preceduto gli «ospiti» sulla stessa via; ora sono i suoi parenti che, per ricordarlo, cercano di rendere meno aspre le sofferenze altrui.

Si è ricorso al plurale («mondi altri») perché queste istituzioni si diversificano non poco tra loro, così come spesso molto differenti sono le condizioni fisiche, personali e sociali di chi vi è ospitato. Tuttavia le accomuna il fatto di essere demarcate da una unilaterale distinzione tra il «dentro» e il «fuori». Non avviene alcuno scambio bidirezionale: dall’esterno si può giungere all’interno, ma non viceversa. Si chiamano «ospiti» ma il loro non è mai un passaggio alla fine del quale si esce dalla porta così come si era entrati. Il soggiorno può essere breve o protrarsi a lungo; la sua fine, comunque, sarà sempre contraddistinta dal varcare una soglia, per definizione «altra», rispetto alla quale a noi viventi è precluso di entrare e di uscire. Ospiti momentanei sono piuttosto coloro che vengono in visita. Non è insolito che lo facciano per lungo tempo. Forse per anni oltrepassano l’ingresso in un senso e in un altro; tuttavia la loro vita resta caratterizzata dall’essere riconsegnata, per forza di cose, anche al «mondo di fuori»: l’ambito in cui ci si sposta, si lavora, si fa la spesa, si è bagnati dalla pioggia o cotti dal sole, in cui si incontrano gli amici per affari o per diletto e così via.

La difficile etica dei visitatori è legata a questa asimmetria: essi entrano ed escono, gli altri rimangono. Anche qui il plurale è d’obbligo. Vi è chi lascia davvero l’anima presso quel malato o quell’anziano; c’è, invece, chi, incapace di reggere il pensiero che pure a lui potrebbe capitare la stessa sorte, va in cerca di una tenue difesa spersa tra le brume del non pensarci. Prima di uscire, quell’imbarazzo aveva, di frequente, assunto i panni di una malcelata commiserazione. Quando questo genere di visitatori se ne è tornato a casa, non di rado si ode un: «era ora che se ne andassero via».[1] Anche ai visitatori più affettuosi e rigorosi con se stessi è però precluso scavalcare il proprio ruolo. Pure loro varcheranno la soglia che li conduce all’esterno e là si muoveranno in un «mondo altro» e lo faranno anche nel caso in cui il pensiero resti là, affianco a quel letto.

Con la debolezza del suo stesso essere, ogni malato grave, ogni persona oppressa dal cumulo degli anni ripete, senza muovere lingua, le parole scritte da Sofocle nel Filottete: «Essere malati esige uno, al fianco, che sorregga: te» (vv. 674-675). Tuttavia per tutti i visitatori, per il fatto stesso di essere tali, è arduo far proprio questo appello. In ogni caso per sorreggere occorre non cader preda della  spossatezza e ciò segna una distanza insuperabile tra il sano e il debole, simboleggiata anche dal fatto che il primo, trascorsi pochi minuti o molte ore, infine uscirà dalla porta attraverso cui era entrato.

Una delle cifre più evidenti del «mondo di fuori» è il lavoro. Senza energie intellettuali e fisiche non si partecipa alla produzione, allo scambio, ai servizi. all’amministrazione. Tuttavia c’è chi lavora «dentro».  Sono coloro che, pur non essendo visitatori,  hanno un quotidiano contatto con gli «ospiti». Sono innanzitutto le persone, in prevalenza donne, che, nella gerarchia della salute e dell’assistenza, svolgono le mansioni più umili e indispensabili: lavare i corpi, pulirne i rifiuti, farvi entrare il nutrimento necessario per la sopravvivenza. Si tratta di un compito duro, ma è anche un lavoro, caratteristica che lo consegna, di diritto, al «mondo di fuori». In un certo senso è perciò vero affermare che solo questi lavoratori appartengono effettivamente a entrambi i mondi. Basterebbe questo aspetto per comprendere varie difficoltà della loro vita.

Molti libri, di sovente i più alti, riescono a trasmettere il proprio messaggio non solo attraverso quanto vi è scritto, ma anche mediante il non detto. A volte l’intento di muoversi in questa direzione si fa esplicito; il testo, allora, può essere caratterizzato pure da una larga presenza del vuoto. La carta bianca sta alla scrittura come il silenzio alla voce:  ne dilata il senso. Questa via è stata imboccata da Paolo Miorandi, – psicologo del lavoro, psicoterapeuta e scrittore – in un suo libro, Ospiti, il cui corpus centrale è costituito da ottanta terzine, una per pagina. Ognuna di esse distilla il vissuto di una persona che svolge gli umili lavori in quel mondo.[2] L’autore le ha annotate, fatte sedimentare e infine riproposte. Sono tutte frecce e nessuna di esse manca il bersaglio. Alla fine il lettore può identificarsi con San Sebastiano: sono ferite, ma sono preziose. Nessun lettore può affermare di non comprendere quel linguaggio. È quindi illecito scegliere un mazzo più ristretto di detti, quasi che essi possano dare l’idea dell’insieme. Ognuno di essi è insostituibile per quanto dice e per lo spazio bianco che lo circonda.

Ciononostante due terzine verranno trascritte. Lo sono perché esse riguardano più di altre il «mondo di fuori», quello in cui ci troviamo, in cui operiamo, gioiamo e ci affliggiamo, quello che ci consente di essere visitatori: «Piange, dice che è la  nostalgia /Le racconto la vita fuori/ Dio, ti prego, non farmi finire qui»; «Fuori fanno sì con la testa / La morte, dicono, fa parte della vita / E cambiano discorso».[3]

Piero Stefani

 




[1] Cf. S. Natoli, Edipo e Giobbe. Contraddizione e paradosso, Morcelliana, Brescia 2008, 58.

[2] P. Miorandi, Ospiti, Postfazione di P. Cattani, Il Margine, Trento 2010, pp. 106, € 9.

[3] Id.,  nn. 14, 38

305 – L’etica dei visitatori (12.09.2010)ultima modifica: 2010-09-11T09:57:00+02:00da piero-stefani
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