260 – Politica: il caos dall’alto e quello dal basso[1] (13.09.09)

Il pensiero della settimana, n. 260

  

Anche nel pensiero politico ci sono aspetti che inducono a ripetere con il Qohelet: nulla di nuovo sotto il sole. Jan Assmann, per esempio, afferma che il sistema dei regni sacri dell’Oriente antico aveva come propria base un’antropologia pessimistica, la stessa che, in epoca a noi ben più prossima, avrebbe trovato riscontro in Hobbes, in Carl Schmitt e in tanti altri conservatori. Essa sostiene che se manca uno stato forte è inevitabile che erompa il bellum omnium contra omnes. La frusta della disciplina esercitata nei confronti dei sudditi è sempre preferibile all’anarchia. Per questa visione il caos proviene dal basso. La Bibbia (o per essere più precisi la storiografia deuteronomista) è orientata invece a  sostenere che il caos proviene dall’alto a opera dei detentori del potere. Dopo l’esperienza dei totalitarismi novecenteschi – aggiunge Assmann – quest’ultima affermazione appare, in realtà, più preveggente rispetto a quella che scorge nello stato il baluardo eretto contro la «natura ferina dell’uomo». [2]

 Riferendosi al periodo monarchico, Voltaire, nella voce «Storia dei re ebrei e Paralipomeni» del suo Dizionario filosofico, elenca una nutrita serie di assassinii compiuti nell’arco di tempo che va da Davide al re Osea figlio di Ela (cfr. 2 Re 15,30; 17,1-4), dopo di che propone il seguente, ironico commento: «Bisogna ammettere che se lo Spirito Santo ha scritto questa storia, non ha scelto un argomento molto edificante».[3] La Bibbia ha optato per descrivere il caos dall’alto. Di esso  è prototipo Abimèlec, figlio di Gedeone, il quale, in combutta con i signori di Sichem, conquistò il potere facendo uccidere su una sola pietra i suoi settanta fratelli. (Gdc 9,1-6).

Dalla carneficina si salvò solo Iotam A quest’ultimo si deve la celebre allegoria degli alberi  rivolta ai signori di Sichem. Iotam disse che gli alberi si misero in cammino (il paradosso inizia subito) per eleggere sopra di loro un re. I migliori rifiutarono. L’ulivo, il fico, la vite non vollero rinunciare ai loro frutti. Alla fine ci si rivolse al rovo, il peggiore, che accettò la nomina accompagnandola con parole di oscura minaccia: «Se davvero mi ungerete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano» (Gdc 9,8-15). Martin Buber ha giudicato la favola arborea come «la più decisa composizione poetica antimonarchica della letteratura universale».

Regnano e dominano i peggiori e il loro governo può avere come sbocco solo la distruzione reciproca tra chi detiene il potere e coloro che hanno contribuito alla sua istituzione, nel caso specifico si tratta di Abimèlec e dei sichemiti. Non per nulla il libro dei Giudici avrebbe ben presto prospettato la fine degli uni e dell’altro presentandoli come esito inevitabile del loro patto sciagurato (cfr. Gdc  9,42-57).

Sarebbe errato negare che i conservatori possono rivendicare a se stessi una quota di verità. Proprio Buber, tanto avverso alla monarchia, sostiene che il libro dei Giudici è composto da due parti saldate tra loro «da uno straordinario spirito di compromesso, lo stesso che ha dato luogo alla formazione del canone»,[4] la prima antimonarchica è infatti seguita da una seconda (capp. 17-21) filomonarchica. Quest’ultima opzione descrive a più riprese cosa avviene quando dilaga il caos dal basso (cfr. la violenza subita dalla concubina del levita di Efrata e la conseguente guerra civile – Gdc 19-20). Il perno su cui ruota questo violento disordine è ricapitolato dalle parole che chiudono il  libro: «In quel tempo non c’era re in Israele e ognuno faceva ciò che era retto (jasar) ai propri occhi» (Gdc 21,25; cf. 17,6; 19,1. 24). Quando crolla il senso dell’autorità erompe l’individualismo (o se si vuole il relativismo).

Compromesso o inevitabile oscillazione tra Scilla e Cariddi? Il male deriva dal re;  il male erompe dalla mancanza di potere. Di volta in volta si è costretti a optare per il danno minore. Più avanti nella sua storia, Israele avrebbe individuato due vie alternative a questo angoscioso pendolo: la Torà (Legge) e il re messia figlio di Davide. Il primo riferimento è per oggi, l’altro riguarda sempre il domani e relativizza ogni pretesa assolutezza presente. Neppure queste due prospettive sono esenti da involuzioni; tuttavia molte volte esse hanno costituito un argine contro i pervertimenti insiti nell’esercizio del potere. Trascritto in termini secolarizzati, tutto ciò ha qualcosa da spartire con la democrazia la quale non vive a prescindere dalla saldezza del riferimento costituzionale e senza attribuire una valenza politica alla parola speranza.

Piero Stefani

 




[1] Una versione più ampia del testo apparirà sul  Regno-attualità 16,2009 di prossima pubblicazione.

[2] Cf.r  J. Assmann, Non avrai altro Dio, il Mulino, Bologna 2007, 79-82.

[3] Voltaire, Dizionario filosofico, BUR Rizzoli, Milano 1966, 196.

[4] Ivi, 72.

260 – Politica: il caos dall’alto e quello dal basso[1] (13.09.09)ultima modifica: 2009-09-12T10:15:00+02:00da piero-stefani
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