247 – Il mannello dimenticato (26.04.09)

Il pensiero della settimana, n. 247

 

 Da quando non ci è più dato di scordare Freud, il dimenticare ha perduto la propria innocenza. Se abbiamo dimenticato un oggetto da qualche parte e dobbiamo voltarci indietro per andarlo a riprendere, non bisogna chiamare in causa la stanchezza, la distrazione o la vecchiaia; il motivo ultimo è altro, racchiuso nelle profondità di noi stessi.  Impossibile sottrarsi al determinismo psichico. Nulla avviene a caso, anche se è raro sapere il motivo del perché capiti.

Di fatto nella nostra vita quotidiana non diamo troppo peso alla psicopatologia; percepiamo, però, di star perdendo colpi. Quando espressioni del tipo «dove avrò mai messo…», «dove avrò lasciato…» tornano con incalzante insistenza, si accende una spia rossa. «Gli anni passano» si dice, «e noi con essi» si sottintende. Allora non ci si preoccupa troppo dell’inconscio; basta e avanza prendere atto che stanno diminuendo le proprie capacità di tenere sotto controllo i piccoli fatti della vita. Pur essendo eventi minimi, li si coglie come segnali del fatto che il peggio deve ancora venire.

Anche senza compiere alcuna elaborazione psicoanalitica, questi eventi di tutti i giorni sono ugualmente percepiti come atti mancati. La loro ombra è fredda non solo perché sono colti come premonizioni, ma anche perché essi svelano la nostra incapacità di attribuire loro un senso diverso dall’essere segni negativi. Non è agevole prendere il modo di dire secondo cui «chi non ha testa mette gambe» come benefico surrogato della ginnastica. Indice di saggezza sarebbe non tanto accettare queste minime défaillance come specchi, un po’ opachi, del nostro limite, quanto ricavare da esse una componente che vada a vantaggio di altri. Non sempre è possibile, ma sarebbe attestazione di non banale creatività riuscire, ogni tanto, a farlo. Vi sono circostanze in cui il recupero può essere condotto in porto senza troppa immaginazione. Un caso del genere ha luogo quando la pubblica ammissione delle proprie imperfezioni risulta un modo per scendere dal piedistallo e per attenuare il senso di superiorità, vera o presunta, tipica di chi non sembra conoscere buchi nella propria efficienza. In queste circostanze il tratto qualificante, più che ammettere la piccola mancanza ai propri occhi, sarebbe di trasformarla in occasione per addolcire il rapporto con chi ci sta accanto. Tuttavia ciò può funzionare solo se queste imperfezioni restano eccezioni: se diventassero regola sarebbe impossibile riscattarle per  questa via.

Un bell’esempio della capacità di volgere al positivo una dimenticanza lo si trova nella Bibbia. Si tratta di un precetto che non comanda di fare, eppure non è neanche  un vero e proprio divieto. Il suo imperativo è volto semplicemente a lasciare le cose così come stanno. Senza mutarle le si cambia di segno. Siamo nel libro del Deuteronomio. Il contesto del comandamento è la terra d’Israele. Là il popolo si sarebbe dedicato all’agricoltura, avrebbe piantato uliveti e vigne, avrebbe seminato grano e avrebbe ospitato presso di sé degli stranieri. Sarebbe giunta l’epoca del raccolto. Quando si vendemmia non bisogna tornare indietro a racimolare, quando si bacchiano le olive occorre evitare di ripassare. Più dettagliata ancora la prescrizione nel caso del grano: «Quando, facendo la mietitura del tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, l’orfano e la vedova» (Dt 24,19). Qui è detto apertis verbis, che il punto di partenza è una dimenticanza (verbo shakhach).

Non c’è intenzionalità dell’offerta. Non si pensa subito a coloro che sono nel bisogno: vedova, orfano, straniero. Non vi è neppure, come avviene nel libro di Rut (2,16), l’atto di fingere di lasciar cadere i mannelli: nel Deuteronomio all’inizio la dimenticanza è autentica. Essa non è però totale: a un certo punto ci si accorge di aver dimenticato; è proprio allora che non bisogna far nulla. L’apparente rimedio, il tornare indietro, sarebbe indice di egoismo. Non la nostra buona volontà, bensì le nostre paraprassie sono diventate occasioni per dare un po’ di sollievo agli altri. Ospitare dentro di sé una componente inconscia, rappacificandosi con essa, diviene precondizione  per compiere  un bene discreto che non dà elemosina sulle piazze, che non vede neppure il volto di chi è nel bisogno, ma sa che quest’ultimo esiste proprio quando ci si accorge della propria dimenticanza. Allora lascia le cose così come stanno perché altri possano trarre da esse un minimo beneficio.

Piero Stefani

 

247 – Il mannello dimenticato (26.04.09)ultima modifica: 2009-04-25T09:42:00+02:00da piero-stefani
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