Intervista sul futuro della Chiesa

 

L’intervista rilasciata da Piero Stefani al triestino Giorgio Pilastro sul futuro della Chiesa, di cui il pensiero n. 246 riproduce, con lievissime modifiche, la parte finale, è qui pubblicata integralmente. L’intervista è di prossima pubblicazione in un volume collettaneo.

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Iniziamo dal discorso sull’antigiudaismo o antisemitismo, in ambito cattolico e cristiano. La vicenda dei vescovi lefebvriani riabilitati di recente da Benedetto XVI ha fatto emergere quella che lei definisce ‘la punta dell’iceberg’. Vuol dire che la questione dell’antigiudaismo è molto più profonda e, soprattutto, ancora presente nel mondo cattolico?

 

Ci sono varie precisazioni da fare. La prima riguarda la questione lefebvriana. Al suo interno c’è una punta dell’iceberg: il negazionismo di Richard Williamson. È una posizione estrema e, appunto perché  tale, è stato possibile isolarla, sia all’interno del movimento sia, soprattutto, all’esterno. È insostenibile affermare l’inesistenza di un progetto di sterminio degli ebrei, perciò la condanna della presa di posizione di Williamson è stata espressa in maniera chiara sia dal mondo cattolico ufficiale sia – pur con qualche distinguo – all’interno del mondo lefebvriano. Questa, però, è, lo ripeto, la punta dell’iceberg. All’interno della Fraternità sacerdotale San Pio X resta aperto il  problema dell’antigiudaismo presente in tutto l’ambito tradizionalista. Sono due aspetti diversi: un conto è il negazionismo, altro paio di maniche l’antigiudaismo. Quest’ultimo ha un riferimento molto chiaro alla questione conciliare. Il punto chiave, infatti, è l’accettazione o meno della svolta costituita dal Vaticano II, in particolare con la dichiarazione Nostra aetate n. 4,  l’unico documento del concilio che non cita, a proprio sostegno, nessun pronunciamento magisteriale precedente. IL testo non fa riferimento né ad altri concili, né ai padri della chiesa, né ad encicliche e così via. Tutti gli altri documenti del Vaticano II citano fonti precedenti: un modo indiretto per affermare che si continuano a dire le stesse cose, pur aggiornandole. La Nostra aetate, invece, in particolare nel numero 4 (quello relativo all’ebraismo), si riferisce solo alla Sacra Scrittura. Una circostanza che, ad un orecchio lefebvriano, può suonare “protestante”. Lì, invece di appoggiarsi alla tradizione vista come continuità, sembra, infatti, che si sia adottato il criterio della sola Scriptura. Da questo punto di vista fa parte del sistema tradizionalista  evidenziare la presenza nel concilio di una discontinuità che, in questo caso,  c’è stata davvero.

 

Discontinuità rispetto a cosa?

 

Rispetto al fatto di affermare, sia pure con qualche residua oscillazione, il ruolo positivo e permanente assunto dall’elezione del popolo ebraico. Per essere  teologicamente più incisiva la Nostra aetate avrebbe dovuto parlare di elezione di Israele. Tuttavia quest’ultima parola non ritorna mai nell’intero documento: una mancanza (giustificata anche dall’opposizione delle chiese cattoliche di rito orientale) che indica, in modo chiaro, le incertezze ancora presenti nella dichiarazione.  In ogni caso, va registrata in essa la caduta della condanna legata alla “perfidia giudaica”, espressione da intendersi in senso proprio; vale a dire, si tratta della posizione in base alla quale gli ebrei, rinnegando la fede nel messia d’Israele, hanno perduto l’elezione.

Affermare la perennità dell’elezione ebraica ha delle conseguenze ben precise sull’atto di autodefinirsi da parte della chiesa. La Nostra aetate non ha una struttura sufficientemente solida per trarre da questo discorso tutte le conclusioni del caso. Tuttavia interviene in modo netto sul fronte negativo: essa prende le distanze dalla posizione secondo cui il popolo ebraico è identificato come reietto e perciò punito visibilmente nella storia; una visione, quest’ultima, tuttora ribadita dal mondo lefebvriano.

 

E all’interno della chiesa cattolica ufficiale?

 

Questi temi non sono estranei al mondo cattolico ufficiale e, quindi, conciliare. Si intende, non è che siano all’opera istanze orientate a ripristinare una visione preconciliare. O, se ci sono, esse operano, in maniera residuale, in tradizionalismi di confine; non certo nel magistero, ancora meno in quello di Benedetto XVI. C’è, invece, una grandissima difficoltà nel capire quale sia, a proposito del popolo ebraico, la nuova teologia capace di prendere il posto di quella precedente giudicata ormai non più proponibile. In questo orizzonte, ancora in stato nascente, coabitano affermazioni eterogenee ed ogni tanto si scivola in posizioni contraddittorie. Esse emergono non tanto rispetto al problema (non di rado enfatizzato dai massa media) di una presunta responsabilità ebraica per la morte di Gesù, quanto in relazione alla domanda di quale sia la natura della chiesa a fronte della vocazione permanente affidata al popolo di Israele. Questo nodo non è ancora risolto.

 

Quale rapporto si sta instaurando tra il mondo ebraico ed il cristianesimo?

 

Quello a cui si è accennato finora è un tema interno al cristianesimo, che non coincide con il problema del dialogo, anche se, ovviamente, ha collegamenti stretti con quest’ultimo. All’epoca conciliare la visione affermativa degli ebrei era, sostanzialmente, quella di considerarli testimoni viventi (permanenti) della fede biblica. Soltanto che proprio l’esercizio del dialogo e la conoscenza crescente del mondo ebraico hanno condotto a rendersi conto che, per comprendere la storia ebraica, l’affermazione non è né sufficiente, né adeguata. L’ebraismo infatti ha molti aspetti. Esso non è, sostanzialmente, riconducibile a pura convinzione religiosa: è la vita di un popolo, è una cultura, è una forma di organizzazione sociale con versanti anche politici. È una storia nella quale sono avvenuti dei cambiamenti, anche molto accentuati, a seconda delle epoche. In particolare la storia contemporanea, dall’800 in poi, implica parametri diversi dalla matrice biblica. Questo fatto ha avuto delle ricadute molto evidenti  sull’atteggiamento assunto, ad esempio, rispetto allo stato di Israele, fonte di permanenti problemi interpretativi, al di là delle, pur rilevati, questioni politiche e militari contingenti.

Per molto tempo l’insegnamento cattolico è stato avverso al sionismo, giudicato antitetico all’idea che il  popolo dovesse vivere, fino alla fine dei tempi, disperso e umiliato. Quando poi si è accettata l’esistenza dello stato di Israele, si è posto il problema di come recepirlo. Per accertarlo come lo stato degli ebrei dotato delle caratteristiche secolari degli altri paesi, bisogna uscire dall’idea che la Bibbia ci serva a interpretarlo. Sono questioni astratte, ma, in realtà, tutte le volte che ci si trova davanti ad un problema che riguarda Israele, non si capisce bene come articolarlo: che rapporto c’è, se c’è, tra esso e la condizione di “popolo  eletto” riservata alla stirpe di Israele? A sollevare l’interrogativo non è nemmeno solo la questione dello stato di Israele; lo stesso vale per molte vicende del ‘900, compresa la Shoah. La difficoltà di costruire una nuova teologia sta anche nel  capire come una costruzione teologica in fieri si rapporti con le vicende storiche attuali e di un  passato ebraico che comprende, almeno per gli ultimi due secoli, parametri fortemente secolari.

Su questo terreno si innesta anche il capitolo del rapporto della chiesa con l’antisemitismo contemporaneo. Esso ha senza dubbio caratteristiche diverse dall’antiugiudaismo cristiano. Tuttavia, specie tra Otto e Novecento, è impossibile  compiere tagli troppo netti tra le due componenti, anche se i modelli restano diversi.

 

In che senso?

 

L’antisemitismo “laico” ha bisogno delle ideologie moderne. Dal punto di vista dall’orizzonte storico, esso non sarebbe mai nato se non ci fosse stata la emancipazione, cioè la presenza diffusa e non giuridicamente discriminata degli ebrei all’interno della società. Queste dinamiche nascono proprio perché gli ebrei sono entrati a pieno titolo nella società e vengono giudicati come un pericolo. Essi sono accusati di inquinare la società, di controllare  la finanza, di tramare ai danni degli altri e così  via. L’antigiudaismo invece aveva bisogno di poggiarsi su una realtà storica nella quale gli ebrei si presentavano come una minoranza collettivamente discriminata e organizzata in base a una legislazione parzialmente autonoma.

 

La cultura ebraica era trasversale rispetto alle varie culture dei popoli nei quali era inserita.

 

Il popolo ebraico, definito da caratteristiche transnazionale, è stato emancipato in un’epoca nella quale si manifestarono, dapprima,  il principio di  nazionalità e poi i nazionalismi. L’antisemitismo ha attecchito nella cristianità nel momento in cui, all’interno dei nazionalismi, poteva essere giocata la carta della componente cattolica o protestante. Allora sorse la possibilità di sovrapposizione tra vecchi stereotipi e nuove tendenze. Questo spiega perché i fenomeni sono stati consistenti in Germania o in Francia, ma, per lungo tempo, non in Italia, dove l’unità nazionale avvenne in antitesi con la chiesa cattolica. Anzi qui l’antigiudaismo, venato di antisemitismo, si manifestò da parte cattolica proprio indicando negli ebrei, nei massoni, negli  anticlericali  i responsabili della perdita del potere papale.

Quando, decenni dopo, sorse il nazismo risultò molto evidente che il luogo di denunce e resistenza più forte alla legislazione razziale si concentrò sulla discriminazione  nei confronti degli ebrei battezzati. È interessante prendere atto che la resistenza all’antisemitismo avvenne anche in base al sussistere di antiche struttura antigiudaiche. Non si dimentichi che per le chiese del tempo l’ebreo convertito cessa di essere ebreo, rinuncia alla “perfidia giudaica” e diventa cristiano. Perciò chi lo discrimina misconosce l’importanza del battesimo. Nel dettaglio anche qui non si possono compiere cesure troppo nette; tuttavia la tendenza generale non si discosta molto da quanto finora detto. L’altro punto di resistenza fu costituito dal ruolo assegnato all’Antico Testamento. Le chiese lo rivendicano al cristianesimo. È come se dicessero: quel libro è nostro, voi non potete etichettarlo come giudaico. Lo ripeto: tendenze antigiudaiche furono in grado di rispondere, parzialmente,  all’antisemitismo. Ma si trattò di un ibrido.

 

La nuova formulazione della preghiera del venerdì santo proposta da Benedetto XVI era necessaria, opportuna o inopportuna?

 

Era inopportuna per una serie di ragioni, indipendentemente dal fatto che chieda o meno la conversione degli ebrei. È inopportuna all’interno della stessa volontà di ristabilire un rito precedente. Se si legittima un rito anteriore perché lo si muta? Se si modifica una preghiera vuol dire che essa aveva necessità di essere rivista. Ma se si introduce una formula nuova, quest’ultima deve essere per forza adeguata, mentre quella proposta da Benedetto XVI suscita molti problemi. All’insegna della tradizione è insorta una situazione paradossale: il venerdì santo la chiesa cattolica può pregare con due formule, non solo diverse, ma addirittura antitetiche. Una, quella del rito di Paolo VI, chiede che Israele resti fedele alla propria vocazione, senza nominare Gesù Cristo; l’altra domanda un riconoscimento universale dell’azione di salvezza di Gesù Cristo, anche da parte ebraica. A prescindere dal fatto che sia o no una richiesta legittima, è fuori di dubbio che si tratta di due preghiere antitetiche. Questa situazione è un vulnus nell’idea stessa di tradizione che pur si vuole riproporre. È una situazione che non riguarda gli ebrei, ma, in prima persona, la chiesa cattolica. In questo senso la scelta di Benedetto XVI è stata davvero inopportuna.

 

Ed in termini di contenuti?

 

Per qual che riguarda i contenuti accetto l’interpretazione secondo cui la nuova formula del messale latino di s. Pio V non prospetta una conversione storica di massa degli ebrei alla chiesa. La preghiera chiede, invece, una conversione delle genti alla chiesa, vale a dire un’entrata di massa dei non cristiani nella chiesa cattolica. Un fatto che dovrebbe inquietare non solo gli ebrei, ma anche gli esponenti delle altre religioni. Tuttavia siccome la teologia è un linguaggio poco di casa nella comprensione intellettuale media, questo aspetto è stato del tutto trascurato. La preghiera, però, afferma nell’ordine: il riconoscimento dell’azione universale di salvezza di Gesù Cristo, la conversione delle genti alla chiesa, la redenzione escatologica di Israele.

 

Ci potrebbe essere un dialogo più profondo tra la teologia cristiana e quella ebraica?

 

Su questo piano vanno considerati alcuni aspetti abbastanza consolidati. Comincio con una ovvietà: per dialogare bisogna essere in due e entrambe le componenti devono avere la volontà di farlo su una base di riferimento comune. Bene, soprattutto da parte ebraica non c’è, mediamente, nessun interesse a dialogare con i cristiani su questioni  teologiche perché, si dice, non c’è nessun argomento in agenda sul quale possiamo confrontarci. Ebraismo e cristianesimo sono due sistemi religiosi diversi, fatti per gente diversa e per scopi diversi. È una posizione teorizzata in particolare dallo studioso americano Jacob Neusner, molto stimato da  Benedetto XVI.  Il mito della tradizione giudaico-cristiana è appunto solo tale.

La posizione può essere anche vera da quando ci sono  l’ebraismo ed il cristianesimo. Tuttavia all’epoca di Gesù ed anche di Paolo queste due realtà non c’erano in modo paragonabile a quanto avvenne in seguito. Dopo il 70 d.C. anche l’ebraismo ha subito trasformazioni decisive. Ma per affrontare simili temi bisognerebbe aprire molti  discorsi che ci porterebbero lontano. Lo ripeto, al giorno d’oggi da parte ebraica non c’è, in genere, alcuna istanza di dialogare teologicamente con il mondo cristiano. Siamo di fronte alla cosiddetta asimmetria del dialogo. Formulata in maniera semplificata la tesi afferma: i cristiani hanno bisogno degli ebrei per comprendersi, mentre  l’inverso non vale per gli ebrei.  Questa situazione riflette bene la tendenza cristiana, spesso avanzata in modo assai poco meditato, di guardare agli ebrei intendendoli come “nostre radici”.

Dal punto di vista ebraico ci si domanda: cosa significa dialogare teologicamente? O muoversi nella direzione della conversione, che non è un dialogo, o tendere a una specie di ibridazione cristiano-ebraica, e neppure questo è  dialogo. Vi è però una terza via: comprendere meglio le proprie verità di fede. Quest’ultima opzione costituisce il principale interesse per il dialogo teologico da parte cristiana. Gli ebrei, in genere, affermano, però, di non aver bisogno di questo confronto per comprendere meglio se stessi. L’opzione ebraica è incentrata su terreni come la lotta contro l’antisemitismo e la discriminazione, o su temi come l’impegno comune per i grandi problemi dell’umanità: giustizia, pace, salvaguardia del creato. Lo specifico del dialogo verte però soprattutto sul primo punto, quello volto a difendere l’identità ebraica.  Qui, ovviamente, si innesta anche il nodo del rapporto con lo stato d’Israele. .

 

La Sacra Scrittura non potrebbe essere un terreno di dialogo?

 

La Nostra aetate auspicò lo svolgimento di studi biblici comuni. Fu un invito non privo di ingenuità. Allora si  pensava che la Bibbia (vale a dire l’Antico Testamento) costituisse un terreno comune, invece esso è un luogo anche di grandissima distinzione. La Bibbia infatti è commentata dentro la tradizione ebraica in un modo del tutto proprio. Tanto è vero che i cristiani, per lo più, non comprendono il ruolo assunto dalla normativa ebraica che definisce il popolo d’Israele come una entità separata. Si vuole sempre andare alla ricerca di quanto è universale.

La svolta, a proposito della Scrittura, si avrebbe se, dall’una e dall’altra parte, si prendesse di petto la questione delle origini lette in chiave storica. Certo non bisogna legittimare l’approccio critico moderno come un assoluto, occorre però considerarlo come uno dei fattori che contribuiscono a ridefinire la comprensione del problema. Allora si capirebbe non solo che Gesù era ebreo, ma che anche gli apostoli erano ebrei e che il messianismo dei primi credenti era ebraico. Si comprenderebbe che la coppia antitetica ebrei-cristiani era semplicemente sconosciuta nell’ambito degli scritti neotestamentari: allora infatti quella contrapposizione semplicemente non esisteva. Quei testi conoscono la coppia formata da ebrei e gentili, intrecciata con quella, nata dalla predicazione del vangelo, di  credenti e non credenti in Gesù Cristo. Tutto ciò non equivale affatto a parlare di ebrei e cristiani. Il nostro problema è di capire come lo studio storico possa innervare una tradizione, tenendo conto che tradizione e storia sono due realtà diverse.

 

Affrontiamo il tema dell’ermeneutica biblica. La Dei verbum ed il concilio hanno approvato la lettura storico critica della Sacra Scrittura. Un approccio nuovo, che ha consentito una maggiore comprensione e appropriazione del testo biblico. L’ultimo sinodo dei vescovi non ha disconosciuto questo modello, ma ha indicato la necessità di una maggiore attenzione nei confronti di una lettura spirituale e nella tradizione della Bibbia. È il segnale di un ritorno ad una mediazione magisteriale delle Sacre Scritture?

 

 La chiesa cattolica ha legittimato l’approccio storico critico alle Scritture anche prima dell’epoca conciliare. Lo si approva già nella Divino afflante Spiritu di Pio XII che è del 1943. Non vi è dunque difficoltà ad accettare un procedimento in cui si sostiene che i testi biblici sono sorti in un contesto storico e culturale. Ciò non fa particolare problema. Cosa, allora, fa problema nella lettura della comunità cristiana? Il fatto che questo tipo di discorso resti isolato e non sia mai collegato al “dopo”. In altri termini, anche la formulazione dei dogmi cristiani dovrebbe essere affrontata in modo storico e critico. Ma questo è un esercizio riservato davvero solo ad ambiti specialistici. Eppure si tratta di uno snodo fondamentale. La lettura della Bibbia, e in particolare del Nuovo Testamento da parte di una comunità di credenti,  fa percepire immediatamente la distanza  tra quei testi e le successive definizioni dogmatiche. Se non si fa l’operazione di storicizzare il dogma si crea una grande scollatura che non si sa come affrontare. Tuttavia è ben chiaro che, stando ai modi in cui è trasmessa la fede, la storia dei dogmi è terreno scottante. Anche questa è una delle cause (sia pure tra le minori) del perché  ormai tutto è ricondotto a un insegnamento morale.

Qualche tempo addietro, in parrocchia, mi è stato chiesto di dire alcune parole sull’episodio della trasfigurazione. Qualcuno si è domandato: cosa rappresenta la nube che avvolse Gesù? La risposta è stata: è lo Spirito Santo. C’è il Padre e c’è il Figlio ma lo Spirito Santo dove sta? Deve esserci, quindi è la nube. Nella percezione media è dato per scontato che nel Nuovo Testamento deve essere presente la struttura trinitaria nei termini definiti quasi tre secoli dopo a Nicea. Per la comunità cristiana la questione cruciale, più che interrogarsi sui modi in cui sorsero i vari libri della Scrittura, starebbe nel chiedersi come si sia passati dalla Bibbia al dogma. Operazione, a quanto so, del tutto desueta. D’altra parte, è ben vero, che se si affrontassero queste riflessioni, si aprirebbe, senza la possibilità di erigere steccati, il problema di una fede adulta capace di misurarsi con nodi culturali delicatissimi. Si tratterebbe di un tema pastoralmente ingovernabile. In questa maniera, però, si offre il fianco, per fare un esempio scontato, ai Testimoni di Geova i quali bussano alle porte delle case e chiedono: dove trovi nella Bibbia il Credo niceno-costantinopolitano? Il loro letteralismo biblico è una risposta totalmente inadeguata al problema; esso, però, mette in luce una differenza evidente tra il linguaggio biblico e quello dogmatico.

In conclusione, direi che la legittimazione di un approccio critico alla Bibbia è compiuta a livello di principi senza grandi ricadute nella prassi. Infatti, trasferito in quest’ultimo ambito, sarebbe inevitabile affrontare il rapporto storico tra dogma e Scrittura. Per dare un esempio allusivo tratto dalla liturgia, il nodo è vedere che rapporto ci sia nella successione costituita dalle tre letture, dall’omelia e dal Credo. Fermo restando che la messa non è, ovviamente, il luogo in cui compiere un approccio storico.

 

La soluzione proposta è allora la lettura spirituale?

 

Sì, c’è la risposta spirituale, essa non è negativa, ma è parziale. La lectio divina non solleva problemi storici, ma, così come è di solito proposta, si chiede: cosa ti dice la Bibbia? In pratica essa è ricondotta a questi binari: cosa dice il Vangelo nella mia situazione esistenziale? E così via. Che poi, in buona sostanza, è una lettura molto prossima a quella etico-esistenziale proposta dalle omelie.

 

Lei ritiene, invece, che la via del metodo storico-critico debba essere mantenuta e perseguita?

 

L’adozione del metodo storico-critico apre tutta una serie di questioni che sfidano la tradizione a capire che essa non coincide con la storia. Se affermiamo che gli scritti biblici si riducono a testimonianze relative a determinate epoche storiche ci allontaniamo non solo dall’ambito della fede, ma anche da quello della comprensione ermeneutica dei testi. Neppure i testi classici si riducono a ciò. La questione omerica non risolve in se stessa la potenzialità di significato contenuta nell’Iliade. L’ermeneutica dei testi conosce approcci di letture diversi da quello storico-critico. In particolare,  anche la via che si appoggia sulla cosiddetta “storia degli effetti” (vale a dire le influenze esercitate da un testo) presuppone che la Bibbia sia stata recepita come un libro sacro. Se la Scrittura fosse stata sempre letta come un puro documento storico, non avrebbe certo avuto l’enorme influsso che ha esercitato nelle vicende del mondo.

Al giorno d’oggi è in atto un grande equivoco relativo alla cosiddetta lettura canonica. In senso proprio si tratta di un approccio letterario che muove dall’elementare convinzione che un testo vada letto nel suo contesto: un libro biblico fa parte della Scrittura. Il fatto che si sia costituito quell’insieme ha un suo significato.Ciò vale anche in relazione ad ambiti più limitati. Per esempio, perché tra tutti i salmi possibili se ne sono scelti proprio 150 e sono stati messi in questo ordine? Se applico il metodo storico critico affermo che i  salmi appartengono a vari generi letterari (lode, supplica individuale o collettiva, imprecatori, ecc.) e che ognuno di essi va compreso per conto suo; ogni testo perciò va interpretato in base alle sue origini più o meno ipotetiche. Con questo approccio non capisco, però, il perché della successione proposta. È forse casuale? La risposta della lettura canonica è che la creazione dell’insieme costituisce già un’ermeneutica. Ma ciò ha ben poco a che vedere con una lettura teologica che stabilisce l’unità cristologica delle Scritture. Tuttavia spesso sembra di vedere all’opera una tendenza che assume l’approccio canonico come una specie di ritorno post-critico all’unità delle Scritture. Insomma lo si scambia per un modo di legittimare la lettura patristica, scelta che può, ben s’intende, essere fatta ma che va condotta su altre basi e senza dimenticare il nodo, tutt’altro che irrilevante, dell’antigiudaismo dei padri della chiesa.

 

Il timore è forse che ci sia un maggiore interesse nei confronti del Gesù storico rispetto al Cristo della fede?

 

Quella del Gesù storico è una questione specifica legata all’approccio critico. Forse la più eminente. Se si dice “Gesù storico” si è eredi, volenti o nolenti, di una operazione critica. Quantomeno dall’800 in poi, questo approccio afferma che, a proposito di Gesù, non c’è coincidenza tra il dato dogmatico ed il dato storico testimoniato dai vangeli. Tutti sono ormai costretti a fare i conti con questa impostazione, caso mai per confutarla. Per esempio, Ratzinger nel suo libro su Gesù sostiene: quello presentatoci dai vangeli  è il vero Gesù storico. Un padre della chiesa non si sarebbe posto un simile problema per lui del tutto inesistente. La difesa della coincidenza tra il Gesù storico e quello della fede è operazione moderna e quindi, a suo modo, debitrice di una distinzione che vuole contrastare. Si tratta di un’operazione apologetica. La chiesa, come avviene in relazione a molti altri aspetti della modernità, è sempre sulla difensiva. Non è più lei a stabilire le regole del gioco e, invece di accettare questa condizione, si impegna in affannose e sterili rincorse.

 

Perché la divulgazione del Gesù storico fatta da testi come quelli di Augias e Pesce ha avuto tanta eco, ha fatto tanta presa?

 

Ha fatto presa soprattutto su lettori poco preparati, perché si sta, poco a poco, diffondendo questa precomprensione: l’educazione sommaria alla Bibbia e al cristianesimo veicolata attraverso la catechesi, che un po’ tutti abbiamo avuto, non regge all’analisi storica. Sostanzialmente si rafforza il sospetto riassumibile in  questa frase: “non ce l’hanno raccontata giusta”. Le cose non sono andate così. È una sensazione che Augias, a un tempo, sfrutta e alimenta.

 

La causa sta nel fatto che manca una preparazione religiosa adeguata?

 

Sì, però il fatto che “non ce l’hanno raccontata giusta” corrisponde al vero. La risposta dovrebbe essere: cerchiamo di impegnarci a far maturare e a far crescere la consapevolezza culturale dei fedeli. Non siamo nel campo delle verità assolute, sono questioni storiche, affrontiamole nel loro ambito; ma abbandoniamo la pretesa di fondare certezze di fede su basi relative, rinunciamo ad agganciarle a dati storici opinabili. Tuttavia siamo lontani dall’imboccare con decisione questa via: basta pensare che la gerarchia, persino al vertice, dà in larga misura ancora credito a un approccio rozzamente apologetico come quello di Messori.

La percezione che “non ce l’hanno raccontata giusta” è il meccanismo che ha giustificato anche  il successo di Mancuso. Come si fa a credere alla storia del peccato originale come ce l’hanno raccontata al catechismo? Né, in seguito, alla gente è stata presentata una spiegazione più confacente.  È l’ignoranza di base che giustifica il successo di testi culturalmente modesti, ma che sono in grado di intercettare problemi e sensibilità reali.  Solo la povertà culturale del mondo cattolico ufficiale può spiegare perché Mancuso sia divenuto il portavoce teologico della Repubblica. Gli va dato comunque credito di essere dotato di un reale feeling con la gente;  né fornisce, come fanno molti altri,  risposte preconfezionate o interessate. Se si deve scegliere tra l’Avvenire (che ormai ha tutto l’aspetto di “foglio di regime”) e Mancuso, come si fa a non scegliere quest’ultimo?

 

Le risposte che ricevono dalla chiesa però….

 

Sono di una debolezza incredibile. Le analisi proposte da Mancuso o da altri  possono essere inadeguate, ma i problemi sono reali. Il vero banco di prova è quello di una fede adulta e tutto lascia credere che è proprio quanto le gerarchie (in larga misura impreparate sul piano culturale) temono.

 

Sia la questione dei lefebvriani che l’ermeneutica biblica ci portano al cuore del problema: la tradizione. Cos’è la tradizione?

 

C’è un testo chiave per comprendere il significato della tradizione. È il numero otto della Dei verbum. Un passo citato anche nel 1988 da Giovanni Paolo II nel motu proprio Ecclesia Dei dedicato proprio allo scisma di Lefebvre. Il documento conciliare afferma il senso dinamico della tradizione, proprio quello che i lefebvriani non riconoscono. Leggiamolo. “Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro, sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.” Quello che mi interessa sottolineare è la presenza di questi tre “sia”. Sono coordinati. Devono, cioè, sussistere tutti e tre. La tradizione cresce solo se nella comprensione del deposito della fede c’è prima la riflessione dei “credenti che la meditano in cuor loro”. Si tratta di una componente determinante. È necessaria sia una esperienza condivisa delle cose spirituali sia la predicazione dei vescovi. La predicazione dei vescovi non può sostituire la “meditazione in cuor loro” e viceversa. Occorre il sensum fidelium, ci vuole l’ascolto. Queste preziose indicazioni sono state ben poco applicate nel post concilio. In pratica non c’è alcun coordinamento tra questi tre “sia”; al contrario c’è una frattura. È il cosiddetto scisma sommerso vissuto dai credenti che non vedono la loro riflessione e il loro studio accolti dall’insegnamento episcopale e si trovano, spesse volte, nelle condizioni di dissentire, con fondamento, rispetto all’insegnamento episcopale. Non sono teorie, sono fatti concreti. La bioetica ne fornisce un esempio lampante. Non c’è l’ascolto in questo campo. C’è solo una volontà di  schierarsi.

 

La tradizione viene sempre intesa in senso di mantenimento.

 

È giudicata assai più l’atto di “custodire il deposito” piuttosto che di svilupparlo. È il problema della parabola dei talenti: secondo il tradizionalismo il più fedele sarebbe stato quello che li nasconde e non quello che li traffica. Il modello di fedeltà è statico. Se certe istanze non sono recepite all’interno della chiesa, esse trovano risposte altrove. Questo atteggiamento mette in campo la questione della libertà. Il problema dell’obbedienza nella libertà. Nella chiesa la libertà non è riconosciuta. Quindi si creano due situazioni estreme: da una parte abbiamo la rottura e dall’altra l’integralismo. Sono aspetti antitetici, ma sono anche le due facce della stessa medaglia,.

 

C’è qualche mediazione tra queste due posizioni?

 

C’è lo scisma sommerso. Attualmente non credo che ci possa essere mediazione. Almeno in Italia. In questa situazione cosa si più fare? Non lasciarsi espropriare dei primi due “sia” e più in generale della “libertà del cristiano” intesa in senso alto.  È quello che i credenti possono e devono continuare a fare. Se vogliamo dirla, non con Borrelli, ma con il cardinal Maritini, è il tempo di: resistere, resistere, resistere. Ciò significa non lasciarsi espropriare da altri. Si tratta di un lato difensivo, ma è fondamentale. Dall’altro lato la prospettiva non è poi così oscura; l’attuale posizione della chiesa non reggerà. La storia a poco a poco la sgretola. Si può affermare fin che si vuole che bisogna appoggiarsi sulle radici cristiane dell’Italia, ma i fatti lo smentiscono sempre di più. Lo stesso vale sul fronte bioetico. Trentacinque anni fa la dirigenza cattolica si diede da fare per abolire il divorzio. Oggi nessun uomo di  chiesa pensa di impegnarsi a eliminare il divorzio dalla legislazione civile. Adesso si è costretti (o si dovrebbe esserlo) non solo a studiare i modi per testimoniare in maniera mite l’indissolubilità del matrimonio all’interno di una società pluralista e divorzista, ma anche a individuare una pastorale  che vada a favore (e non contro)  i divorziati risposati.  Prima o poi qualche risposta la si dovrà trovare. A tempi lunghi la stessa cosa verrà per il testamento biologico. Su questo punto c’è ora una posizione apparente forte, ma, in realtà, basata su un’illusione temporanea  legata ad interessi politici specifici. Non durerà. Così come, per rivolgere lo sguardo all’interno della chiesa, non durerà il pervicace rifiuto della chiesa latina (e solo di essa) di consacrare al sacerdozio uomini sposati.

Naturalmente subire il cambiamento per la forza dei fatti, è ben altra cosa che governarlo in virtù della propria libertà spirituale; ma essendo quest’ultima ridotta al lumicino, occorre contare sul primo aspetto.

 

Cosa non dura?

 

Non dura la possibilità incarnata dalla chiesa italiana di oggi di rappresentare il sentire profondo del paese. Non dura la sua illusione di rappresentare l’ethos collettivo. È una pretesa anacronistica e quindi inevitabilmente destinata a cadere.  Facciamo un paragone: perché l’antigiudaismo cattolico è tramontato? Non perché ci sia stata, in prima istanza, una elaborazione dottrinale. È caduto in quanto le condizioni esterne che lo tenevano in piedi sono mutate: non c’è più  ghetto, c’è stata la Shoah, il popolo ebraico non è più disperso, perché è sorto  lo stato di Israele. Sono tre eventi del tutto incompatibili con l’antigiudaismo classico. Il simulacro è rimasto per un po’, ma poi anch’esso è caduto e ci si è dovuti adeguare.

 

Sarà così anche per chiesa italiana?

 

Secondo me sì. Non credo che la sua  pretesa di rappresentare l’ethos nazionale abbia futuro. Il problema di vivere la fede in un mondo post moderno, relativistico, pluralistico, evitando di denunciare solo scristianizzazioni e  perdite dei valori, non  è eludibile all’infinito. Il fatto è che, da parte ecclesiale,  troppo spesso si crede che il proprio tramonto coincida con quello della fede.

 

Perché la chiesa ha tanta difficoltà?

 

Perché bisogna ammettere che il regime di cristianità è definitivamente finito. Se si va in Vaticano ci si rende conto che quella è tuttora una struttura di cristianità. Storicamente è così. Se uno vede il papa che, circondato da guardie svizzere,  riceve il corpo diplomatico in suntuosi saloni come fa a non ritenere che lì tutto continua come se si fosse ancora in un regime di cristianità? Il problema è che la chiesa cattolica è effettivamente anche un’istituzione e in quanto tale è dotata delle sue logiche. Non si può domandarle di essere molto diversa.  È un abbaglio tipico di tanti progressisti i quali sbagliano nel momento in cui chiedono all’istituzione quanto essa  non può dare. Posso esigere da un vescovo che svolga il suo ruolo in uno stile meno anacronistico. Qualcuno già lo fa. Ma non posso chiedergli di non avere rapporti con il prefetto o con il sindaco. Anch’egli  è a capo di  una struttura pubblica, c’è la diocesi, ci sono le parrocchie e così via. Il vescovo dovrebbero essere semplicemente consapevole che questo non è vangelo, così come non lo è il mestiere che facciamo tutti i giorni. Lo stesso vale per un papa che riceve il corpo diplomatico. Se invece si vuole ammantare tutto ciò con il vangelo, allora l’imputazione di tradimento è inevitabile. Il vangelo sine glossa è leggibile nella vita di Francesco di Assisi, non in quella di un politico, di un ingegnere, di un professore, di un vescovo o di un papa. Può essere che esistano ingegneri santi, come è stato Alberto Marvelli, o vescovi e papi santi, ma nessuno di essi lo è in ragione della carica che ricopre.

 

Le maggiori difficoltà sorgono quando guardiamo all’istituzione e contemporaneamente pensiamo all’opzione per gli ultimi, per i poveri. Ci aspettiamo una chiesa diversa?

 

 Non è solo una questione di stile. Le istituzioni hanno delle logiche – come diceva Ivan Illich – che sono insuperabili. Per questo non ci se ne può liberare del tutto senza provocare conseguenze drastiche. Si può per esempio ipotizzare che un  papa cessi di stare in Vaticano?  Il massimo che gli si può chiedere è di andare a risiedere a San Giovanni in Laterano ribadendo così il fatto che è papa in quanto è vescovo di Roma. Ma perché un simile gesto sia coerente si dovrebbero smantellare tutti rapporti tra la Santa Sede e gli altri stati. Con quali conseguenze? In ogni caso, non avrebbe alcun senso che il vescovo di Roma ricevesse nella sua cattedrale il corpo diplomatico. In realtà, un’eventualità del genere può essere imposta solo da determinate vicende storiche (proprio come avvenne per la scomparsa dello Stato Pontificio); non è pensabile che sia l’esito di un processo di autoriforma. Attualmente all’orizzonte non si vede nulla del genere; ma chi può prevedere il futuro?

 

Questa chiesa, però, che non si comprende bene dove stia traghettando, comporta molta più ansia e più inquietudine?

 

È vero, non è chiara quale sia la strategia attuale della chiesa. Noi vorremmo che il vertice si apra perché c’è troppo clericalismo. Vorremmo, come diceva Pio XII, che ci fosse più opinione pubblica nella chiesa e soprattutto che fosse ascoltata. Bisogna operare in questa  direzione. Facile a dirsi, arduo da mettere in pratica, mentre allo stato attuale è quasi utopistico ipotizzarne un esito positivo.

In molti settori ecclesiastici si ha tuttora paura dell’opinione pubblica ecclesiale. Ai suoi vertici la chiesa si pensa tuttora in modo clericale. Ciò avviene perché i laici cattolici non sono adulti, non solo nella fede, ma neanche nella cultura. Tra i cattolici la crisi culturale è ancor più forte di quella della fede. Un confronto tra il livello culturale del laicato cattolico di oggi e quello di qualche decennio fa’ è impietoso.

 

Nelle religioni c’è una sorta di deresponsabilizzazione. Quanta libertà c’è dentro la chiesa cattolica di esprimere idee, dissenso, progetti, ecc.?

 

Lo ripeto siamo soprattutto di fronte al cosiddetto scisma sommerso. In altre parole,   non esiste un’opinione pubblica che venga ascoltata. All’interno della chiesa, vige  un modello di laicato pensato in modo organico. Faccio un esempio. Una signora di Rovigo mi chiedeva: “Devo accettare di essere nominata nel sinodo diocesano? Sono andata lì per partecipare e mi hanno chiesto di fare un giuramento”. Si noti, esso riguardava, non solo l’atto di condividere gli insegnamenti della chiesa, ma anche il fatto di partecipare ai lavori stessi del sinodo. Lascio ad altri stabilire come si possa tenere assieme tutto ciò con il Discorso della Montagna (cfr. Mt 5,33-37).

Il laicato cattolico è ascoltato solo se è organizzato ed è organico. Se l’organizzazione, come nel caso di alcuni movimenti, è molto forte essa può ottenere i propri vescovi ed entrare a far parte, a pieno titolo,  del sistema con un proprio ruolo e un proprio spazio. Ma un laico, che non aderisce a nessuna associazione o a nessun movimento e che si presenta come  un credente puro e semplice, vale a dire come colui che si affida a quanto è fondamentale, in sostanza non conta nulla. Ben s’intende agli occhi della gerarchia, non a quelli di Dio. La mancanza di riflessione su questo punto è un segno preoccupante.

 

Ci solo elementi di speranza?

 

La speranza, intesa nel suo senso più alto, è rivolta all’avvenire di Dio; essa non riguarda la riforma delle istituzioni, neppure quelle ecclesiali. Rispetto a queste ultime si può confidare che, poco a poco, ci si accorga che il re è nudo e che l’attuale, apparente, rigoglio della cristianità è solo un riflesso condizionato provocato dal pluralismo religioso. Molte radici cristiane sono state scoperte solo grazie alla  crescente presenza musulmana. Certo finché ci saranno musulmani che riempiono le piazze per svolgere una preghiera che è in realtà un atto politico, è ben difficile che la nostalgia di cristianità declini. Nel tempo breve non sono ottimista; mentre su tempi lunghi è ipotizzabile che la situazione non duri. Il che non vuol dire che dalle macerie nasca chissà cosa. È come la situazione economica: quando ci sono le crisi serie esse sono effettivamente tali, non crisi di crescita. Esistono fondati motivi di preoccupazione.

Intervista sul futuro della Chiesaultima modifica: 2009-04-22T12:31:00+02:00da piero-stefani
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