245 – Terremoto pasquale (12.04.08)

risurrezione.jpgIl pensiero della settimana n. 245

Si gira e si rigira e si ritorna, infine, sugli stessi pensieri. Galileo parlò dell’esistenza di due libri, quello della natura e quello della Scrittura. Quest’ultimo è dettatura dello Spirito Santo, l’altro è fedelissimo esecutore delle volontà divine che non si cura affatto se le sue recondite ragioni siano comprese o meno dagli uomini. La natura segue, inesorabilmente, il proprio corso sia che gli esseri umani riescano a scoprirne le leggi, sia che brancolino nel buio. Da sempre si è vista la regolarità con cui si susseguono i giorni, le fasi lunari, le stagioni, gli anni. Rispetto al cielo tutto appare misurabile e quindi prevedibile. Sappiamo con precisione fra quanti decenni ci sarà un’eclissi di sole, fra quanti secoli diverrà ancora visibile una cometa. Ciò non vale per la terra su cui poggiamo i piedi e nella quale scaviamo le fondamenta delle nostre case: rispetto a essa non sappiamo calcolare il giorno e l’ora.

La statistica e le indagini geologiche ci ammoniscono che ci sono zone a rischio, ci avvertono che, prima o poi, ci sarà di certo un sisma. Qualcosa si riesca a captare, ma non si sa formulare una previsione sicura. Queste conoscenze dovrebbero essere sufficienti per costruire gli edifici in un determinato modo. Non si tratta di una variabile da poco. L’iniqua distribuzione della ricchezza (o della povertà) propria del nostro pianeta fa sì che una scossa di pari magnitudo provochi, a seconda delle aree, un numero di vittime molto differente. Con tutto ciò, resta il fatto che da sempre i terremoti sono simboli di morte non solo per i loro effetti, ma anche per la loro imprevedibilità.

Tutti sappiamo di dover morire. Tutti siamo a conoscenza che quel fatto avverrà. Nessuno sa con precisione quando capiterà. C’è chi esce di casa per compiere un gesto quotidiano ripetuto miglia di volte e non torna più perché un incidente gli ha stroncato l’esistenza. C’è chi è ammalato e sa che di lì a poco dovrà morire, ma poi la morte, tanto attesa, lo coglie in un attimo non preventivato. Le persone molto anziane sanno che fra vent’anni di sicuro non ci saranno, ma nessuno è tanto vecchio da esser certo che fra un mese o fra un anno non ci sarà più. La realtà più ineluttabile, la morte, conserva in sé tratti di imprevedibilità. Quando essa si affaccia le fondamenta dell’esistenza crollano e i cari che restano al mondo, in un certo senso, sono sempre dei sopravvissuti contraddistinti anche da quanto manca: vedove/i, orfani.

Allorché la realtà che pare la più solida, la terra, si scuote, il senso della provvisorietà riempie tutto. Allora la nostra condizione mortale viene a manifestarsi in pienezza; con essa si palesa anche il maggior valore della vita rispetto ai beni. La terra che ci accomuna sembra tradirci; in un istante essa sconvolge a capriccio le fatiche di una vita. Le viscere del suolo sono cieche, nulla sanno di cosa c’è sopra; non si curano se ci sono deserti, campi, case, monumenti. Tutto trema e tutto crolla. Tuttavia non ce la si può pigliare con la terra; non la si può odiare. Nel suo scuotersi non c’è intenzionalità. Ce la si può prendere – giustamente – con chi è chiamato a costruire e non lo fa secondo le regole, con chi deve soccorrere ed è inefficiente, con chi è tenuto a distribuire aiuti ed è disonesto; per non parlare di quanto davvero merita l’aggettivo odioso: lo sciacallaggio. Nessuna rimostranza può essere invece sollevata nei confronti della terra: la sua indifferenza è l’altra faccia della nostra precarietà.

Da due più di due millenni è stata instillata in Occidente una speranza folle: i morti risorgeranno. La terra non è solo colei che accoglie chi ha cessato di vivere, è anche colei che li restituirà. Visto dalla parte da chi sta sopra, lo scotimento è un crollo, mentre guardato dalla parte di chi sta sotto il grande tremare può indicare l’uscita. Il simbolo della morte si rovescia nel suo opposto. Guardato dalla parte dei morti, il terremoto è pegno di vita. Scrivere queste affermazioni suscita un appropriato disagio. Chi cammina ancora sulla superficie della terra sa che la sventura ha colpito i propri fratelli umani: essa è realtà, non simbolo. Un conto sono i fatti e la chiamata alla solidarietà, tutt’altra faccenda muoversi nell’ambito delle immagini. Tuttavia non pare occasionale né che il vangelo di Matteo descriva la morte e la resurrezione di Gesù in termini apocalittici, né che quel linguaggio citi il terremoto: “Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la resurrezione, entrarono nella città santa ed apparvero a molti” (Mt 27,52). “Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti sceso dal cielo, si avvicinò rotolò la pietra e si mise a sedere sopra di essa” (Mt 28,1-2).

La morte e la resurrezione di Gesù non sono la risposta ai terremoti che colpiscono il nostro pianeta. Né c’è bisogno di esse per alimentare il senso di solidarietà nato dal comune abitare una terra salda, feconda, fragile e terribile. Gesù morto e risorto attesta al credente un’unica, radicale speranza: la parola ultima non è riservata al terremoto che porrà fine alle nostre esistenze.

Piero Stefani

245 – Terremoto pasquale (12.04.08)ultima modifica: 2009-04-11T13:55:00+02:00da piero-stefani
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