244 – La silente voce dei fiori (05.04.09)

Il pensiero della settimana, n. 244

 

 

È la stagione dei fiori. La loro bellezza sta nello sbocciare, verbo divenuto così pregnante da indicare il dischiudersi stesso di ogni vita. Per quanto si sappia che i petali si allargheranno, risplenderanno, si aggrinziranno fino al loro inesorabile appassire, a primavera il boccio che occhieggia è colto dallo sguardo come un tutto, come un segno di speranza posto sotto l’ala della gratuità. Parole evangeliche ci dicono di osservare i gigli del campo che non tessono e non filano. Al loro confronto persino lo splendore di Salomone è poca cosa. Eppure si sa che è bellezza breve che oggi si schiude e domani è gettata nel forno (Mt 6,28-30). Gesù nel suo paragone esorta a guardare l’erba del campo, non un fiore di albero da frutto. L’interezza dello sbocciare è racchiusa in un frammento che esprime un tutto pur non essendo un assoluto.

 

Per cogliere la bellezza dell’effimero splendore primaverile non bisogna porre mente (come vorrebbe  Hegel) al fatto che il frutto subentri al fiore come sua verità dichiarando falsa la precedente forma assunta dalla pianta. Occorre piuttosto rendere lucida e gratuita la nostra pupilla e cogliere il pegno di felicità racchiuso nella rosa che è senza perché, che fiorisce perché fiorisce (Angelo Silesio). Si è chiamati per un istante a liberarsi dalla egemonia dell’utile, della incalzante pressione dello sviluppo, per fissarsi in quanto ora sta schiudendosi e che presto declinerà senza lasciare dopo di sé una realtà più vera. Il fiore è natura. In questa veste è classificabile come ogni altra realtà. Scrutato con queste lenti è leggibile anche in modo evolutivo. Lunghe furono le dispute attorno alle orchidee; o, con più rigore scientifico, molto si discusse della ophrys apifera il fiore «ingannatore» che «imita» la forma dell’ape. Per interpretarlo alcuni si sentivano obbligati a ricorrere a una teleologia vitalistica finalizzata all’impollinazione; altri, di contro, tenevano salda la convinzione stando alla quale, per spiegare la maschera da insetto indossata dal fiore, non fosse necessario introdurre nel meccanismo evolutivo alcuna variante finalistica. Per entrambi gli schieramenti restava egemone l’impulso a riprodursi. Osservati con lo sguardo rivolto al Creatore utilità, caso e necessità possono, invece, essere racchiusi in una momentanea parentesi.

 

Quando lo sguardo accarezza un fiore, il pensiero può spingersi lontano verso le innumerabili, colorite distese che nessun occhio umano, neppure in questo mondo fattosi sempre più densamente popolato, coglie. Là, quando nessuno osserva, il senso della gratuità diviene ancora più elevato. Lo è a causa del suo puro esserci  a cui si accompagna  il bisogno del credente di riferirlo allo sguardo di Dio.

 

  A Quello domanda, o sdegnoso,

perché sull’inospite piagge;

all’alito d’aure selvagge,

fa sorgere il tremulo fior,

che spiega dinanzi a Lui solo

la pompa del candido velo,

che spande ai deserti del cielo

gli olezzi del calice, e muor.

(Alessandro Manzoni,  Ognissanti. Frammenti).

 

I gigli del campo del vangelo non sono simboli in quanto la loro forma o il loro splendore alludano ad altro. Essi rappresentano invece il segno di una cura divina che, per quanto nulla sottragga alla fragilità, si presenta ugualmente più radicale di ogni bellezza costruita dall’operatività umana.

 

In questo inizio di primavera, quando la Pasqua è ormai alle porte vi sono anche segni di tutt’altra natura. Uccisi dalla nostra indifferenza assassina, ignorati dai potenti che su di loro non sanno, né vogliono costruire casi incentrati sul rispetto della vita, centinaia di persone continuano a morire tra le coste dell’Africa e la Sicilia. A Quello noi domandiamo di vedere e di custodire.

 

Piero Stefani

244 – La silente voce dei fiori (05.04.09)ultima modifica: 2009-04-04T16:24:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo