243 – Sofferenza e riconciliazione (29.03.09)

 Il pensiero della settimana, n. 243

 

Non pochi hanno sentito parlare di «Servo del Signore». Alcuni sanno che nel rotolo del profeta Isaia ci sono dei canti che lo riguardano (Is 42,1-7; 49,1-9; 50,4-11; 52,12-53,12). Eppure tutto ciò può coabitare con l’assenza di un interrogativo elementare, quello che si chiede se questa figura sofferente riceva la propria qualifica in quanto è una persona che sta offrendo il proprio servizio a Dio, o se, al contrario, l’espressione vada intesa dall’altro lato pensando a un essere umano di cui il Signore si serve. Quest’ultima formulazione suona sgradevole a chi, come noi, è alieno dal legittimare ogni forma di strumentalizzazione del patire. Eppure, per comprendere questo grande riferimento biblico, occorre inoltrarsi su questa via. Il «servo di Dio», nella Chiesa cattolica, primo grado del processo di canonizzazione, si riferisce, forse, a una persona che ha posto la propria vita al servizio del suo Signore; non così l’‘eved Adonai. Proprio questa peculiarità fa sorgere però la domanda se quella figura profetica abbia un significato collegabile al nostro patire e al nostro servire.

 

Nel quarto canto all’inizio parla il Signore, tuttavia, in breve, il discorso subisce una svolta quando irrompe la prima persona plurale di spettatori che si accorgono, a posteriori, del proprio errore: «Ecco il mio servo avrà successo […] Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 52,15-53,5). In questi versi è espressa la divaricazione temporale che si palesa quando tardi, troppo tardi, ci si accorge del significato legato al dolore altrui. Prima si era distolto lo sguardo dalla sofferenza dell’umiliato (Is 53,3); dopo, però, allorché la vista non può più cogliere nulla perché la persona non c’è più, si avverte dentro di sé un richiamo non colto in precedenza. Spesso, nella vita, capita di rendersi conto solo dopo la scomparsa di una persona colpita nel corpo o nella mente che la sua presenza «diversa» era un monito che interrogava  la nostra umanità; il suo esserci costituiva un perenne invito a pensare cosa significa esistere come creature umane. Volgendosi indietro ci si accorge che lei è stata quel che noi potevamo essere.

 

«Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore» (Is 53,10). Lo scandalo dell’espiazione non è che qualcuno compia l’offerta di se stesso, esso sta nel fatto che il Signore si compiaccia (verbo ebraico, chafaz) di colpire qualcuno riversandogli addosso delle sofferenze. Per l’animo contemporaneo ciò diviene arduo da comprendere; ma forse tutto ciò significa semplicemente che il patire può trovare un qualche senso, vale a dire che la propria condizione dolorosa sia il sigillo di un compito o di una vocazione. Allora si accetta la sofferenza come parte inseparabile di una chiamata. Caricarsi delle colpe altrui equivale a porsi al servizio di coloro che ci fanno violenza o sono semplicemente indifferenti alle sventure che ci capitano. Più che pagare un prezzo su una supposta bilancia divina in cui i peccati dovrebbero essere scontati con dosi proporzionate di sofferenza, essere colpiti significa venir costituiti come monito perenne per le coscienze altrui: «credevamo… ma ora ci accorgiamo». Dalla estraneità si passa a una solidarietà che non esclude neppure l’avversario. Il Servo del Signore incarna una compassione dalle braccia tanto ampie da poter stringere anche i malvagi. Da qui il ruolo decisivo assunto dalla parola espressa da chi, con cuore penitente, coglie tardi il senso della sofferenza inerme. Il compiacimento del Signore è un «mistero del dopo».

 

«L’amore di Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro […] Tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava con sé il mondo in Cristo non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» (2Cor 5,14-19). A lungo la dottrina cristiana ha compreso la morte di Gesù giudicandola giuridicamente sacrificale, vale a dire staccandola dalla parola della riconciliazione che ne è il frutto. In realtà, ognuna delle due parti dell’affermazione ha bisogno dell’altra. La morte di Gesù va annunciata perché non ha senso alcuno che Dio si riconcili con il mondo se gli uomini non sono in grado di stabilire tra loro legami riconciliati. La scelta di aver affidato l’efficacia della croce alla debole parola umana sta a significare che la completezza a cui nulla manca –  l’offerta unica e perfetta di Gesù Cristo – ci accompagna lungo la storia nell’umiltà propria di chi chiede di essere accolto. L’annuncio della croce confida di trovare un noi che, «dopo», dica il proprio pentimento e manifesti la propria volontà di dar luogo a una riconciliazione interumana. Il paradossale compiacimento del Signore di colpire con dolori il suo amato regge soltanto se quell’atto diviene motivo di riconciliazione, una realtà  – al pari della consolazione – legata anch’essa al «dopo», alla volontà di non consegnare l’ultima parola al negativo che aveva racchiuso tutte le creature nella spirale della propria ombra.

Piero Stefani

 

 

243 – Sofferenza e riconciliazione (29.03.09)ultima modifica: 2009-03-28T16:18:00+01:00da piero-stefani
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