235 – La volontà di guarire (25.01.09)

Il pensiero della settimana, n. 235

 (predicazione svolta nella chiesa battista di Ferrara, il 23 gennaio 2009 in occasione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, testi: 2 Re  20,1-6; Sal 22,1-12; Gc 5,13-15; Mc 10,46-52)

 

La Bibbia ci presenta mondi lontani; o meglio, essa, non di rado, ci prospetta realtà tanto  prossime ai moti che avvertiamo dentro di noi, quanto distanti dalle maniere  in cui l’inerzia delle Chiese ci ha presentato la fede.

Si legge nel secondo libro dei Re (2Re 20, 1-11; Is 38) che Isaia fu inviato a Ezechia gravemente malato. Il profeta si presentò, dunque, a uno dei due re di Giuda, a cui la  Scrittura riserva un giudizio positivo (l’altro è il successivo Giosia). Dalla bocca profetica non si udirono però parole di conforto rivolte al giusto sofferente. Risuonò invece una  sentenza  secca e implacabile: «Da’ disposizione per la tua casa, perché tu morirai e non vivrai» (2 Re 20,1). La reazione del pio Ezechia non è docile, non risponde: «sia fatta la tua volontà», non dichiara che si devono accettare sempre e comunque gli imperscrutabili disegni divini. Al contrario, il re voltò la faccia verso la parete e pregò presentando a Dio la propria rettitudine. Ezechia non chiede di essere scampato. Con le sue parole, egli  implicitamente dice: se mi fai morire a metà della mia vita (Is 38,10 ) come è possibile che sulla terra si palesi la tua giustizia? Detto ciò scoppiò in pianto. A quell’epoca cessare di vivere significava perdere tutto e essere precipitati in una regione infera (lo sheol) separata da ogni relazione con Dio (Is 38, 18-19). Per Ezechia preghiera e pianto erano entrambe forme di congedo dalla vita: dopo non ci sarebbe stato spazio né per l’una né per l’altra.

 

Isaia era appena uscito dalla stanza e la voce del Signore lo richiamò. Lo rimandò indietro e gli fece annunciare al re la guarigione.  Il Dio della Bibbia  è dunque tanto volubile  da  mutar idea in un batti baleno? O forse Egli dal pio re attendeva proprio una parola diversa dalla supina accettazione della divina sentenza?  «Ho udito la preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco io ti guarirò» (2Re 20,5). Non c’è solo l’udire, c’è anche il vedere e si tratta non di devote lacrime di contrizione, ma di un umano pianto che rifiuta una morte precoce. Dio è convinto a mutare consiglio dalla protesta e dalla fragilità, non dalla devozione e dall’ascesa. Infatti il Signore voleva legittimare davanti a sé la condizione umana. 

 

La verità forse più cara contenuta nella Bibbia è proprio quella di presentare la creatura umana tutta racchiusa nel suo limite eppur capace sia di stare di fronte a Dio sia di chiedergli ragione di quanto avviene nel mondo. La Scrittura, davanti a una sentenza di morte che incombe su una giovane vita, ci vieta di ripetere: «bisogna  rassegnarsi alla volontà di  Dio». Quel che il Signore vuole è che si viva e non già che si muoia. Preghiere e lacrime, espressioni di una vita che si ribella al suo estinguersi, (e che è ancora vita appunto perché capace di protesta) sono più preziose agli occhi del Dio di Israele di ogni devota rassegnazione.

Alla vita di Ezechia furono aggiunti quindici anni. Per l’uomo antico era una benedizione; per noi moderni potrebbe apparire un incubo. Come ha vissuto il re lo scoccare del quattordicesimo anno? Si è costretti a pensare a coloro che, garantiti da un parere medico di vivere un’ulteriore manciata di anni, vedono, mese dopo mese, avvicinarsi la data fatidica. Oggi si può confidare nella fallacia della previsione e ci si può attaccare alla propria volontà di vivere; allora, quando Dio era un’evidenza, le cose stavano diversamente. Lo spaurito Ezechia dalla faccia rivolta contro la parete si muta in una specie di acquirente che vuole garanzie. Chi mi assicura che le cose andranno proprio così? Posso fidarmi della parola del medico divino? Non potrebbe forse essere che pure il profeta indulga alla facile consolazione della menzogna, alla bugia pietosa che al medico è concessa?

 

Ecco allora la seconda parte del racconto che sconcerta ancor più della prima. Come Gedeone (Gdc 6,36-40), anche Ezechia vuole prove palpabili; non gli basta la semplice parola del profeta. Anche nell’animo del re sembra far breccia il disincanto a cui la nostra vita spesso ci conduce: troppo bello per essere vero! Dio accetta la sfida. Non solo viene incontro a questa esigenza, ma provoca Ezechia con una scelta: eccoti il segno, l’ombra della meridiana può muoversi in avanti o indietro di dieci gradi, decidi tu. Ezechia optò per l’alternativa  più ardua:  tornare indietro, far sì che quanto è stato (la sentenza di morte per la sua malattia) non sia. Così avvenne. Tutto ciò ci suona favoloso, anche se non è mito che a volte le nostre vite sperimentino un incontro in cui Dio, per farci ricominciare e darci speranza,  tira indietro l’ombra che ci attanaglia. Con tutto ciò, resta vero che  Ezechia, a cui è promessa la vita, parla la lingua della sfida e Dio accetta il gioco. Il cuore del messaggio è tutto racchiuso in questa possibilità che avvertiamo a un tempo vicina e lontanissima di contendere con un Dio presente,  in luogo di interrogarci sul nascondimento divino.

 

Nei vangeli sinottici vi è una frase che torna più di un volta. Dopo aver compiuto un risanamento, Gesù dice a chi si è rivolto a lui: «la tua fede ti ha  guarito» ( Mc; 5,34; 10,52) . Per fede qui  non si intende credere in qualcosa. È sempre una fede di cui non si specifica l’oggetto. Siamo di certo più prossimi a un atto di fiducia, a un fidarsi e a un affidarsi ma non è neppure solo così. Se le cose stessero unicamente in questo modo, Gesù avrebbe detto parole del tipo: la tua fede ha meritato che io ti guarissi. Si sarebbe perciò entrati in una  forma di logica che,  in seguito, sarebbe sfociata negli ex voto. La frase invece sembra piuttosto imparentarsi con la dinamica in base alla quale il medico non può curare nel caso in cui il paziente non manifesti concretamente la propria volontà di guarire. Ciò vale anche per il nostro incontro con Gesù.

 

Il cieco Bartimeo si affida al passaggio di Gesù, grida, per questo è rimproverato dai vicini, ma egli, lungi dal cedere, raddoppia la forza della sua voce. Tutti lo redarguiscono, tranne il figlio di Davide. Gesù  si ferma, lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e lo guarisce per la sua fede. Bartimeo non si rassegna al suo destino di oscurità e Gesù vuole che il suo passare lasci tracce. Attende che ce ne accorgiamo,  gridiamo, e non ci facciamo azzittire. Noi abbiamo bisogno di lui, ma pure Gesù ha bisogno della nostra fede che ci guarisce.

 

Se la ferite dell’unità dei cristiani sono ancora aperte è anche a motivo della  nostra rassegnazione. La nostra fede non ci ha ancora guarito perché abbiamo lasciato passare Gesù davanti a noi e abbiamo sgridato e ammutolito chi gridava a lui per essere risanato. Non siamo stati dominanti dalla volontà di uscire dalla nostra cecità e ciò ha fiaccato la forza benefica di colui che ci può guarire solo se non lo lasciamo passar oltre. In definitiva Gesù non ha ancora sanato le nostre divisioni perché noi non abbiamo davvero voluto che ci guarisse.

Piero Stefani

 

235 – La volontà di guarire (25.01.09)ultima modifica: 2009-01-24T00:00:00+01:00da piero-stefani
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