234 – Gaza: lo scacco della politica (18.01.09)

Il pensiero della settimana n. 234.

 

Dopo più di venti giorni dall’inizio dell’attacco israeliano, dai bunker della città giungono messaggi come questo: «Gaza non è morta e neppure è viva». Anche rispetto ad Hamas sarà molto arduo arrivare al giorno in cui si potrà dichiararne il decesso politico e organizzativo. Se non giungerà quella data si avrà sempre a che fare con un organismo tanto debilitato quanto difficile da sopprimere e quindi, per definizione, sempre più inquietante.

 

Nel 2005 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon compì due operazione di grande ardimento: impose lo sgombero unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia  e scombinò il sistema politico interno, basato fino ad allora sulla polarità Laburisti-Likud (più raggruppamenti minori), creando un nuovo partito: Kadima. Il ritiro da Gaza e il muro in via di costruzione che ridefiniva i confini con la Cisgiordania dovevano garantire, unilateralmente, la sicurezza e la ebraicità d’Israele. Nel complesso le misure allora adottate avevano lo scopo sia di conseguire una stabilità politica nella riottosa democrazia parlamentare israeliana, sia di fronteggiare la minaccia demografica, l’insidia, da sempre più forte rispetto alla definizione ebraica dello stato. Allo scadere del 2005 la ricollocazione della presenza ebraica solo in contesti maggioritari non era completa: i coloni avevano lasciato Gaza, ma altri stavano ancora dentro diversi territori amministrati dall’Autonomia Nazionale Palestinese. Inoltre, pure dopo l’esaurimento della seconda intifada e il passaggio dell’onda di piena degli attentatori suicidi, il tema della sicurezza non era risolto in modo assoluto, restava, per esempio, il problema dei confini nord e di quelli con la Siria.  Kadima non aveva ancora concorso alle elezioni e fino alla chiusura delle urne non si può essere mai sicuri. Tuttavia, in quel frangente, era possibile individuare una linea politica sufficientemente precisa.

Nel gennaio del 2006, a poche settimane dalle elezioni, Sharon fu colpito da emorragia cerebrale. Da allora la sua persona e i suoi disegni politici non sono né vivi, né morti: si ripropone la metafora del «semivivo» .

 

Nelle elezioni del 2006 Kadima vinse, ma in maniera tutt’altro che travolgente, mentre il suo leader, il ministro Ehud Olmert, non ha mai convinto. Egli, ben prima che gli scandali imponessero le sue dimissioni e la conseguente fissazione di elezioni anticipate, è stato sempre tallonato dalla fama di essere personaggio incolore ed estraneo a quel mondo militare da cui sono provenuti molti dei leader politici israeliani dell’una e dell’altra parte. La guerra del Libano contro gli Hezbollah filoiraniani del 2007, che avrebbe dovuto dargli autorevolezza, ebbe un effetto boomerang. Il suo esito precario contribuì a indebolire ulteriormente la leadership israeliana. L’inquietante vicino a nord non fu fiaccato. Il prestigio dell’esercito precipitò in una caduta libera a motivo dell’inefficacia sul piano militare e delle vittime civili che caratterizzarono l’operazione.

 

Il 2006 fu anno elettorale anche nell’ambito dell’ANP. Nelle elezioni – le prime svoltesi dopo la morte di Arafat e l’avvento alla presidenza di Mahmud Abbas (Abu Mazen) – Hamas ( movimento cresciuto anche con l’aiuto di Israele in funzione anti –Fatah) conseguì  la maggioranza assoluta dei seggi.  Il risultato fu non l’instaurazione di una normale dialettica tra  maggioranza e opposizione, ma uno scontro aperto tra le due componenti. Nel 2007 l’organizzazione islamista-politico-militare-assistenziale di Hamas ha espulso manu militari Fatah da Gaza; nel contempo i funzionari eletti di Hamas furono allontanati dalle loro posizioni (o a volte persino eliminati) dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordanaia e i loro posti furono assegnati ai rivali di Fatah o a membri indipendenti. Inoltre il Presidente palestinese Mahmud Abbas (Fatah) emise un decreto che poneva fuorilegge le milizie di Hamas.

 

Nel corso del 2008, nonostante la proclamazione di una tregua, dalla Striscia di Gaza governata da Hamas continuarono a piovere sulla parte sud del territorio israeliano missili, che, per quanto di scarsa gittata ed efficienza, costituivano una sfida lanciata alla sovranità di  uno stato da parte di  un’entità non statuale. Da questo punto di vista la data di scadenza della tregua, il 19 dicembre, non ha segnato un gran mutamento. Né si può immaginare che l’operazione «Piombo fuso», preparata da mesi, sia stata effettivamente motivata dall’intensificazione dei lanci nei giorni immediatamente successivi alla tregua. Il governo israeliano, da tempo potenziato con l’ingresso del laburista ( ex militare e ex premier) Barak alla difesa, l’aveva già decisa in precedenza. I motivi per l’attacco si erano via via addensati: portare a compimento a sud, contro una forza militare ben più debole di quella dell’Hezbollah, l’operazione mal riuscita a nord, sfruttare la transizione di potere negli Stati Uniti, invertire la tendenza elettorale che dava per vincente il Likud di Netanyahu, mostrare che uno stato può scegliere gli interlocutori non statali con cui discutere optando per Fatah. (in passato si era giocata la carta di Hamas contro Fatah: adesso si invertono i fattori). Restava più incerto che cosa significasse questa operazione in rapporto agli stati arabi. Era chiaro che nessuno di essi sarebbe intervenuto nella guerra, ma a chi sarebbe toccata la posizione principale nel momento in cui si fosse inevitabilmente giunti a trattare una tregua?

 

L’esperienza libanese del 2007 ha ulteriormente confermato che le guerre non si possono vincere solo dal cielo: la vecchia terra è ancora un elemento indispensabile; dall’alto si possono arrecare distruzioni, non controllare territori. L’operazione  «Piombo fuso» ha dunque comportato anche l’uso dei tank. Entrare con bombe al fosforo e artiglieria pesante in una delle aree più densamente popolate del pianeta  (circa un milione e mezzo di persone per 378 km2 ) significa mettere in conto l’uccisione di un gran numero di civili, creare profughi, colpire ospedali e sedi ONU. Le atrocità pesano. L’attenzione, proporzionalmente elevatissima, dedicata dai media agli eventi  mediorientali diffonde immagini strazianti a livello globale. L’opinione pubblica mondiale coglie la «sproporzione della ritorsione» (ma l’operazione non può qualificarsi affatto come una ritorsione) e stenta a comprendere il pericolo costituito da Hamas, tema, quest’ultimo, lasciato in monopolio, in modo sprovveduto, alla destra antislamica.

 

Per quanto, con ogni probabilità fosse stato messo in conto, Israele sta pagando prezzi umanamente e moralmente inaccettabili. Tuttavia nella sfera politica questo rischio potrebbe anche avere un senso se ci fossero all’orizzonte degli sbocchi. La domanda cruciale sta perciò nel chiedersi che cosa Israele pensi di ricavare politicamente dall’uso della forza. Attraverso l’operazione «Piombo fuso» lo stato ebraico  ha colpito qualche alto dirigente di Hamas – primo fra tutti il «ministro degli interni» – ma non è riuscito a impedire che i membri del movimento sconfitto alzassero le dita in segno di vittoria. Non hanno torto: finché sussistono, anche se «semivivi», lo possono fare. Hamas rientra nell’ambito di quei movimenti che non si tirano mai indietro nel creare situazioni che facciano aumentare il numero delle vittime; anzi, queste ultime sono la loro forza, per loro l’odio è un inestinguibile bacino di consenso. A seguito dell’operazione israeliana il ritorno a Gaza di Fatah, con un Abu Mazen completamente screditato e incapace di impedire la strage del suo popolo, è assai più lontano di prima. Per Hamas la stessa ufficializzazione di una tregua costituirà, se mediata da stati, un riconoscimento internazionale di alto profilo. Forse perciò Israele sarà costretto un’altra volta a far ricorso a una decisione unilaterale. La strategia politica di lungo termine resta incerta e confusa. Il ventunesimo, secolo, iniziato all’insegna di guerre messe in campo in luogo della politica, sembra non voler desistere dal percorrere questo cammino perverso.

 

Nei mesi della transizione statunitense le mediazioni internazionali si sono dimostrate poco efficaci. L’Europa, lungi dal cogliere l’occasione lasciata da quel vuoto, si è presentata divisa e legata a personalismi. Nell’area del vicino Oriente cresce la polarizzazione tra l’Egitto e la Siria. Nel campo del primo si trovano altri alleati degli USA come la Giordania e l’Arabia Saudita, mentre dietro la Siria ci sono il Qatar, lo Yemen, l’Algeria e, soprattutto, il non arabo Iran. Se si giungerà a una tregua attraverso la mediazione dell’uno o dell’altro, il massimo vantaggio politico dalla opzione militare israeliana toccherebbe a stati rimasti a guardare, dal di fuori, le operazioni belliche. Dentro Gaza invece ci saranno più morti, più mutilati, più bimbi traumatizzati, più odio che, come è stato scritto, è capace di ricordo più di quanto non lo sia l’amore. Nelle prossime elezioni israeliane, il laburista Barak e il leader di Kadima Livni dovrebbero conquistare la maggioranza parlamentare. Con ogni probabilità, pure loro si conformeranno, tuttavia, alla regola tipica della democrazia malata dei nostri anni; vale a dire, anche per loro sarà più facile vincere che governare. A meno che, dall’altra parte dell’Atlantico, non sia apparso, per davvero, un presidente che, dopo essere stato capace di vincere, dimostri di essere in grado di dare una rinnovata dignità al governare.

Piero Stefani

 

 

234 – Gaza: lo scacco della politica (18.01.09)ultima modifica: 2009-01-17T00:02:00+01:00da piero-stefani
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