226 – Il celibato sacerdotale (23.11.08)

Il  pensiero della settimana, n. 226

 

È lascito alto della tradizione cristiana che solo una forma di vita orientata verso l’eschaton è in grado di giustificare il senso profondo della scelta celibataria. Essa ha consistenza soltanto se l’esistenza di chi ha consacrato a Dio la propria condizione di celibe testimonia davvero un’ulteriorità rispetto a questo mondo. Al riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1619) si esprime in modo del tutto consono: «La verginità per il Regno dei cieli è uno sviluppo della grazia battesimale, un segno possente della preminenza del legame con Cristo, dell’attesa ardente del suo ritorno, un segno che ricorda pure come il matrimonio sia una realtà del mondo presente che passa (cf. Mc 12,25; 1 Cor 7,31)», fermo restando che tutto ciò può essere vissuto anche in modo molto spoglio. Ivan Illich, a proposito di se stesso, scrisse che il voto di castità è scelta «di vivere adesso la povertà assoluta che ogni cristiano spera di vivere nell’ora della morte».[1]

Fino a qui ci troviamo in un ambito condiviso anche dall’ortodossia. Tocchiamo infatti le basi peculiari della scelta monastica. La presenza di uomini e donne che scelgono di testimoniare il Regno nell’attesa della venuta del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi fa parte di una grande e condivisa tradizione cristiana. Quanto è peculiare al cattolicesimo, o meglio al suo rito latino, è l’imposizione del celibato come condizione indispensabile per l’esercizio del sacerdozio ministeriale. Nel recente libro-intervista Conversazioni notturne a Gerusalemme, a Carlo Maria Martini è stata posta una domanda in termini molto franchi: «Non avere rapporti sessuali è innaturale. Come mai i preti non devono sposarsi?». Il cardinale risponde: «I preti possono sposarsi in tutte le chiese ad eccezione di quella cattolica romana. L’idea che i sacerdoti non debbano sposarsi è nata dal monachesimo. Donne e uomini vivono insieme in comunità, oppure da eremiti, per seguire Gesù nel suo celibato. Vogliono essere completamente liberi per servire Dio […] rischiano la vita per amor suo. Per il celibato è fondamentale che una comunità offra al sacerdote uno spazio in cui sentirsi amato e protetto. Un prete non deve sentirsi solo…».[2]

La lunga esperienza pastorale ha reso evidente a Martini quanto sia grande il problema del prete che vive in solitudine nel cuore della città.  Perciò, egli  più avanti apre, con ponderata cautela, all’ipotesi di consacrazione presbiterale di viri probati. [3] Tuttavia il centro della questione non sta nel dramma reale del conforto richiesto, di frequente,  da chi ha fatto una scelta che dovrebbe renderlo disponibile verso tutti. Né tutto è risolvibile nella grande testimonianza di colui che decide volontariamente di restare solo per essere più vicino a chi, contro il suo volere, è stato gettato dalla vita nella solitudine. Questa vocazione  radicale  rende prossimi alla gente e costringe chi la compie a comprendere come vanno le cose del mondo anche quando, in proprio, è esonerato dal rischio di allevare figli in una società difficile. Questa chiamata però non è per tutti; né può essere imposta come obbligo. Resta comunque vero che il  cuore del discorso è, in realtà, di ordine teologico.

È giunto il tempo di chiedersi, e non solo per motivi pastorali, se la scelta del celibato obbligatorio, imposta in Occidente alla fine dell’XI sec. e codificata disciplinarmente solo con il concilio di Trento, non rappresenti una perdita rispetto alla posizione mantenuta dalla grande tradizione ortodossa (e contemplata anche dalle Chiese cattoliche di rito orientale) che rende vincolante il celibato per i monaci e per i vescovi ma non per i sacerdoti che vivono nel mondo. La vitalità occidentale del neomonachesimo che, recuperando la vocazione originaria, ha posto in gran rilievo la differenza tra lo status di monaco e quello di presbitero, dovrebbe essere assunta come occasione – spiritualmente  più alta di quella connessa a  pure istanze pastorali –  per ripensare alle condizioni e agli obblighi propri del sacerdote che abita nel mondo. Non vi è nulla di più fedele alla tradizione dell’esistenza di una netta distinzione tra monaco e presbitero.

La storia della Chiesa mostra che alla spalle della opzione celibataria imposta ai sacerdoti vi sono pure considerazioni teologiche diverse rispetto a quelle legate alla perfezione monastica. Alcune di esse sono molto antiche. Per esempio già nel sinodo di Elvira (attorno al 300), l’accento posto sull’astinenza sessuale di vescovi, presbiteri e diaconi è preso non dalla novità del sacerdozio di Cristo, ma dall’ibrido impasto che lo collega a una spuria ripresa dell’antico sacerdozio levitico.[4] Prima di compiere il loro servizio al Tempio di Gerusalemme i kohanim (sacerdoti) dovevano entrare in uno stato di purità –  ovviamente temporaneo – il che comportava per loro l’astensione dai rapporti sessuali. Pensando al  nuovo sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek come eterno (cfr. Sal 110,4) si è ritenuto logico concludere che anche l’astensione dal sesso fosse perenne. È stata, dunque, una visione teologicamente impropria di una Chiesa che si pensava come nuovo Israele a introdurre l’associazione tra l’essere presbitero e l’essere celibe.  Prima che la pressione degli avvenimenti e le urgenze pastorali conducano verso qualche frettoloso accomodamento, sarebbe bene ripensare, per tempo, a questi fondamentali snodi teologici.

Piero Stefani

 

 

 

 




[1] Cit. in F. Milana, Postfazione a I. Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, Macerata 2008, p. 143.

[2] C. M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori,  Milano,  32.

[3] Ivi, 100

[4]  «Si è deciso complessivamente il seguente divieto ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, come a tutti i chierici che esercitano un ministero: si astengono dalle loro mogli e non generino figli; chi lo avrà fatto, dovrà essere allontanato dallo stato clericale», H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitioinum  et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue, a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna  1995, n. 119.

226 – Il celibato sacerdotale (23.11.08)ultima modifica: 2008-11-22T06:10:00+01:00da piero-stefani
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