227 – A settanta anni dalle leggi razziali (1) – (30.11.08)

Il pensiero della settimana, n. 227

 

 A settanta anni dalle leggi razziali (1) [1]

 

Compito della legge è regolare l’esistente. Tuttavia in molte circostanze è avvenuto (e avviene) che sia la legislazione a creare la realtà. Essa allora inventa e non regolamenta. Va da sé che, anche in questi casi, si affermerà di intervenire su quanto già c’è; in realtà però le cose stanno in modo diverso: confondendo i piani il legislatore è divenuto creatore.

Un caso, a suo modo esemplare, di questo tipo di procedura è costituito dalle legislazioni razziali. Esse pretendono di nomare l’esistente, mentre, in effetti, creano quanto prima non c’era: fuori dall’ambito legislativo non c’è ambito  in cui si possa parlare, con fondamento, di razza ebraica. L’elaborazione di una simile aberrante idea si spiega solo in quanto funzionale al fine di emarginare una componente della società. Non è perciò la presenza di una razza a esigere una regolamentazione civile, al contrario è quest’ultima a rendere esistente la razza. Tuttavia il legislatore non ammetterà mai questo presupposto.

La campagna preparatoria delle leggi razziali fasciste culminò nella pubblicazione di un manifesto in dieci punti redatto da un manipolo di sedicenti scienziati (in realtà ideologi del regime) uscito sulla rivista La divisa della razza del 5 agosto 1938. La dichiarazione di partenza qualifica gli estensori attraverso tre termini: si tratta di «un gruppo di studiosi fascisti docenti all’Università italiana…». La pretesa obiettività scientifica del testo era perciò dichiaratamente circondata dalla condivisione dell’ideologia politica fascista e dall’inserimento degli estensori nelle strutture dello Stato («Università italiana»). Qui trova conferma la convinzione (che fu già di Spinoza e di altri spiriti liberi dopo di lui) che la simbiosi tra poteri pubblici e università (che in Europa celebrò i propri trionfi nel XIX sec. e in buona parte di quello successivo) rende la cultura pericolosamente funzionale alle istituzioni.

All’inizio dell’Ottocento, Hegel teorizzò, con forti argomentazioni, la grandezza della filosofia universitaria posta al servizio dello stato. In effetti in Italia – prima e dopo il ventennio – si volò, in larga misura, più in basso: l’anello che saldava cultura e statualità  è individuato,  per lo più, nella volontà di far carriera. In questo snodo lo spirito corporativo  si intrecciava con quello proprio della  pubblica amministrazione. Queste considerazioni potrebbero sembrare digressioni non richieste; in realtà toccano un nodo significativo del discorso. È un dato che merita attenzione riflettere sul fatto che nel 1938 ben il 7% del corpo docente universitario era costituito da ebrei. Si tratta di una percentuale impressionante se confrontata con i piccoli numeri propri delle comunità ebraiche del nostro paese. A tal proposito Michele Sarfatti ha asserito che, rispetto all’università, occorre moltiplicare per settanta la media che caratterizzava la presenza ebraica in altri ambiti. Un simile moltiplicatore, va da sé, rappresenta una vera e propria eccezione statistica. Sarebbe riduttivo ricondurre la legislazione razziale all’ambito delle pure faide intrauniversitarie. Eppure sarebbe anche fuorviante dimenticarsene del tutto. A confermarlo basterebbe il fatto che, quando, a motivo delle leggi razziali, quelle cattedre furono rese libere, ci fu subito una corsa ad occuparle. Nessuno si fece scrupoli. Per l’università italiana allora avvenne qualcosa di paragonabile, su scala ridotta, all’espulsione degli ebrei dalla Spagna: il privarsi della componente ebraica costituì un impoverimento irrimediabile.

La percentuale  elevatissima di ebrei all’interno dell’Università italiana induce però anche ad altre riflessioni. Negli ultimi anni, in virtù di alcune iniziative legislative, prima fra tutte l’istituzione della Giornata della Memoria, si è molto esteso nelle scuole l’interesse per la storia ebraica. Ciò ha comportato  una sensibile ridefinizione di un modello – in realtà tuttora lungi dall’essere tramontato – in base al quale si prendevano in considerazione gli ebrei solo o in relazione all’età antica o, dopo un vertiginoso salto temporale, nel contesto della seconda guerra mondiale. In mezzo, nulla. La storia ebraica, contraddistinta da una eccezionale continuità, veniva quindi sottoposta a una brutale semplificazione. Attualmente in molti manuali scolastici l’attenzione è estesa a più vasto raggio. Tuttavia essa, specie nella didattica, è dominata dalla preoccupazione di ricondurre gli ebrei sotto la cifra di minoranza perseguitata.

Nessuno può negare che la persecuzione sia stato un amarissimo boccone che il popolo ebraico ha dovuto più e più volte trangugiare anche prima della Shoah. Tuttavia la vita ebraica non è stata solo questo: ci sono stati aspetti e periodi in cui la categoria della persecuzione non aiuta a comprendere. Il fatto che più volte  gli ebrei abbiano avuto  interscambi positivi con culture e società non sminuisce la cupezza della linea scura dell’ostilità antiebraica. Anzi, ci troviamo piuttosto di fronte a un’aggravante. Questa constatazione infatti dà ragione del fatto che le persecuzioni non sono inevitabili, di conseguenza i meccanismi che le hanno scatenate sono da considerarsi sindromi patologiche delle varie società. La contorsione più grave, favorita dall’assunzione acritica di questo modello, sono le reazioni provocate dal confronto con situazioni nelle quali gli ebrei sono integrati dentro le vari società. In questi casi, nella migliore delle ipotesi non si è in grado di comprendere, mentre, nella peggiore, si cade – più o meno consapevolmente – nelle spire delle interpretazioni antisemitiche stando alle quali gli ebrei godono di vantaggi sproporzionati rispetto alla loro effettiva consistenza numerica, o sono, addirittura, considerati capaci di tramare illecitamente a proprio vantaggio e a danno altrui. Non stupisce perciò prendere atto che nella presentazione scolastica della storia ebraica, per lo più, si dia scarsa o nulla attenzione all’emancipazione degli ebrei avvenuta nel corso del XIX sec. e ai fenomeni ad essa collegati. Perciò, per ritornare al nostro caso, non si saprà dare alcuna spiegazione pertinente di quel che appare un ingiustificato privilegio: la presenza di una percentuale assai alta di ebrei all’interno delle università italiane.

 

                                                                                                                         




[1] Anticipo in due puntate un articolo di prossima pubblicazione sulla Studi Fatti Ricerche (Sefer).

227 – A settanta anni dalle leggi razziali (1) – (30.11.08)ultima modifica: 2008-11-29T06:05:00+01:00da piero-stefani
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