224 – Piccole digressioni democratiche (09.11.08)

Il pensiero della settimana, n. 224

 

Un  sapiente detto antico afferma che la giustizia fugge dal campo dei vincitori. Dal canto suo, è espressione ripetuta sostenere che la storia viene scritta da chi ha vinto. Se la potessero stendere i perdenti essa risulterebbe assai diversa, ma è ovvio che uno dei frutti della vittoria sta appunto nel sottrarre ad essi la possibilità di esporre la loro versione dei fatti. Tuttavia ci si può chiedere se una grande espressione della modernità, la democrazia, non si poggi su un presupposto inverso al precedente. Essa non è forse obbligata a sostenere, per logica interna, che il giusto sta dalla parte di chi ha vinto? La regola di base cogente per coloro che partecipano al suo gioco non è, infatti, che la maggioranza decida e che quanto da essa stabilito valga per tutti.

Il fatto che chi vince abbia ragione è il tallone di Achille della democrazia. Perciò quando chi governa non avverte l’assillo del bene comune o quando viene meno una sana dialettica tra maggioranza e opposizione la democrazia è destinata a degenerare.  Allora parzialità ed arbitrio non conoscono freni. L’Italia di questi ultimi mesi prova ad abundantiam la diagnosi appena enunciata. Le linee sono nette, si governa esasperando emergenze (vere o create ad arte) e, ricorrendo a decreti, si avvilisce il Parlamento e si considera ogni forma di opposizione un attentato al bene del paese. L’insieme di questi sintomi manifesta una democrazia malata.

Al di là dell’Atlantico, nel paese che più di ogni altro ha fatto della democrazia un vessillo, per la prima volta è stato eletto un presidente afro-americano. Le parole che hanno suggellato la sua vittoria sono state soprattutto due: unità e cambiamento. Il loro impasto è una sfida. I due termini sembrano difficili da armonizzare. Change porta con sé  un giudizio negativo sul presente e su chi ha retto le redini del potere  fino a oggi. In questo termine si racchiude la componente utopica della politica che pensa di poter costruire un domani migliore. Questa eventualità significherebbe che la giustizia pianta la propria tenda nel campo dei vincitori. Da qui la carica di positiva ingenuità che contraddistingue l’antropologia nazionale di chi rende programma politico un grande dream. Agli occhi del mondo Obama è anche questo. Rifugiarsi nei sogni è rassegnazione, presentarsi come un sogno – grazie al ricorso a onniavvolgenti apparati mass-mediatici – è l’inganno di cui soffre oggi l’Italia; rendere  il cambiamento un programma politico aggregante  è quanto di meglio possa offrire la democrazia. Perché ciò avvenga occorre appellarsi alla dimensione dell’unità. Essa è positiva quando si trasforma in invito a far sì che i perdenti accettino la piena legittimità della vittoria altrui. È benefica se serve ad evitare di creare, da una parte e dall’altra, una contrapposizione  basata più sugli interessi di parte che sul bene comune. Tuttavia questo richiamo ha anche un versante inquietante: la necessità di appellarsi a un patriottismo rivestito dei panni dell’orgoglio nazionale.

In Italia alle feste per le vittorie politiche sotto i palchi sventolano migliaia di bandiere del Popolo della Libertà (e, a parti rovesciate, sarebbe lo stesso se vincesse PD), pochi o nulli sono, in quelle circostanze, i tricolori (per lo più riservati a quando gioca la nazionale). Nella spianata di Chicago, alla serie di bandiere americane esposte sul palco, facevano da pendant le infinite bandierine a stelle e strisce tenute in mano dalla gente. Nessun segno di partito; vi era solo quello di una nazione costituita – come simboleggiano proprio the stars and the stripes – da un’unione di stati. In quella piazza si osservava  tanto l’aspetto convincente della democrazia quanto l’ombra legata a un orgoglio nazionale che, nell’ultimo secolo, ha sia salvato sia inquinato il mondo.

Il fatto che l’erede degli schiavi di un passato ormai lontano e di una segregazione più prossima divenga presidente di un paese in cui il razzismo è tutt’altro che morto,  è evento di primaria grandezza. Tuttavia, come ha dimostrato la parte migliore, e nel contempo più tragica, della storia americana, la giustizia può esigere rotture e contrapposizioni e non solo senso di unità. Essa va comunque anteposta al patriottismo. Per Obama uno dei terreni su cui misurare il cambiamento sarà quello di rifiutare di alimentare uno strumentale senso patriottico ingigantendo o inventando nemici esterni. Allo stesso modo egli dovrà impedire che diritti umani siano calpestati in nome di un supposto interesse nazionale. Non saranno gli unici fronti su cui giudicare Obama. Comunque essi restano punti qualificanti. Neppure in democrazia, infatti, è garantito che la giustizia non fugga dal campo dei vincitori.

Piero Stefani

224 – Piccole digressioni democratiche (09.11.08)ultima modifica: 2008-11-08T06:20:00+01:00da piero-stefani
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