223 – Le zucche e la vena di mercurio (02.11.08)

Il pensiero della settimana  n. 223

 

Anno dopo anno le zucche avanzano. Ogni fine ottobre le orbite vuote degli aranciati teschi vegetali conquistano più davanzali e più vetrine. La scansione  temporale dell’americanizzazione del mondo si affida quotidianamente alla Coca Cola e, semel in anno, ad Halloween. Ovunque ormai, alla vigilia di Ognissanti, irrompono maschere, streghe e cucurbitacee prive a tal punto dell’originario senso di esorcizzazione della morte da essere appannaggio in primis dei bambini. Il piccolo carnevale autunnale cade pressoché in contemporanea con il suo polo opposto:  moltitudini si recano ancora alle tombe a trovare i loro cari defunti, mentre, quasi nelle stesse ore, bimbi e giovani indossano la maschera, fanno festa e accendono candele dentro le zucche, inconsapevoli eredi di riti esorcistici volti a scongiurare l’incombere dei morti sul precario esistere dei vivi.

In questo contesto le voci che ci dicono la verità sul morire vanno custodite in spazi e tempi affidati ai ritmi non ritualizzabili delle ore incerte. La parola poetica e la grande musica sono ancora in grado di prenderci per mano e condurci sulla soglia dell’ultimo passo. Attraverso esse possiamo pensare che ci sia concessa una morte in grado di ricapitolare il nostro vissuto. L’antica preghiera che chiedeva di essere scampati dalla morte repentina ha tuttora senso se il suo sguardo è riservato al prima e non al dopo. Note e sillabe ci aiutano a sperare che ci sia concessa una morte che si presenti come  un gomitolo ravvolto, non come un filo spezzato. Tuttavia parole e musica valgono per il nostro ora che guarda alla fine dell’esistenza, mentre nulla garantiscono per quell’allora  la cui forza nullificante può travolgere ogni argine.

La sentenza che dichiara l’impossibilità di far poesia dopo Auschwitz è stata a volte discussa con acutezza e più spesso ripresa con superficialità. Quanto preme è affermare che comunque non era possibile scrivere poesia ad Auschwitz. Sempre, anche nelle ‘piccole Auschwitz’ del nostro morire, quando l’orrore domina e il dolore devasta,  la parola è disumanizzata non meno della persona. Allora il credente affida a Dio la possibilità di trasformare in parole il gemito. Perciò chi, mentre era consapevole di stare sull’orlo dell’ombra più  grande, è riuscito a trovare parole che dicono agli altri la propria condizione, offre ai suoi fratelli uomini un dono di ineguagliato valore. Tra costoro vi è stato il poeta cappuccino  Agostino Venanzio Reali.  .

Nella notte della sua lunga malattia, mentre giaceva sul letto scrisse, con grafia sofferente, parole come queste:

 

Preghiera

La vena di mercurio

occhieggia dalla mia notte:

ho salse le labbra,

ho grumi che il sole

lacera nel buio

come gheppio feroce.

Tu, pastore di stelle,

invadimi la carne

di un intimo sole;

tu che libri gli astri

e mi dai il respiro

guarda la preghiera

della mia gracile mano

e i mie occhi ove trema

l’ansia legata alla pietra.

Voglio morire in te:

parlarti è fonte di gioia

e sebbene le labbra

al colloquio non s’aprano,

voglio morire in te.[1]

 

Nel buio della notte dardeggia un sole spietato che piaga e ammutolisce le labbra; un bruciante grumo di silenzio inaridisce la parola; l’invocazione, tuttavia, può chiedere al pastore di stelle soltanto un’altra invasione del sole,  questa volta scaturita dall’interno. Il sole da nemico esterno diviene intimo fratello. Chi dà alito deve volgere lo sguardo a una preghiera non uscita dalla bocca ma vergata da una debole mano. «Voglio morire in te» è piccola inclusione che abbraccia e salva l’inaccessibile gioia di un parlare con labbra serrate.

Piero Stefani




[1] In Giovanni Pozzi,  La poesia di Agostino Venanzio Reali [1931-1994], Morcelliana, Brescia 2008, pp. 140-141.

223 – Le zucche e la vena di mercurio (02.11.08)ultima modifica: 2008-11-01T06:25:00+01:00da piero-stefani
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