211 – Etsi Deus non daretur (1) – (29.06.08)

Il pensiero della settimana, n. 211

 

Premessa: in questa e nella prossima settimana anticipo, diviso in due puntate, un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista bolognese I martedì.

 

Il fatto che  l’espressione etsi Deus non daretur sia  diventata  tanto di uso frequente quanto terreno di contesa  testimonia la fine dell’illusione liberale stando alla quale la religione è un fatto privato. In realtà, le cose non sono mai andate nella direzione auspicata dai liberali; il fattore religione ha infatti sempre continuato a incidere, in maniera più o meno diretta, sulla sfera pubblica. Tuttavia, la percezione della sua presenza non era posta in evidenza quando il riferimento alla secolarizzazione assumeva la funzione di sbrigativa etichetta ora attribuita all’espressione «ritorno delle religioni». È stato soprattutto il molteplice riemergere del fattore religioso all’interno di società democratico-pluralistiche a indurre la parte laica a riproporre una formula in base alla quale i credenti sono invitati a muoversi nello spazio pubblico mettendo tra parentesi, per motivi coerenti alla loro stessa opzione di fede,  argomenti derivati in modo diretto dai principi del loro credere. Ai credenti è perciò richiesto di partecipare al dibattito generale adducendo argomenti  che si collocano in modo esplicito sul piano della razionalità e solo implicitamente su quello dell’adesione di fede.

Questo orientamento, da un lato, legittima la prospettiva secondo cui (a differenza di quanto avveniva nell’opzione liberale) l’appartenenza a una determinata visione di fede  è titolata a influenzare le scelte etico-politiche di ampi strati della popolazione, mentre, dall’altro, sostiene che le regole del discorso pubblico non possono accogliere principi derivati in modo diretto da testi sacri o da insegnamenti di autorità religiose. Insomma,  l’etsi Deus non daretur vale non  per le motivazioni proprie di coloro che aderiscono a una visione religiosa, ma per il tipo di argomentazioni da addurre quando si partecipa a un dibattito pluralista finalizzato ad assumere decisioni collettive (e legislative) generali. L’opzione preliminare  sta quindi nell’accettare  che i propri principi possono anche non essere accolti dalla maggioranza e quindi, in un contesto democratico, risultare vincolanti solo per gli aderenti a una determinata comunità religiosa e non già per la società nel suo insieme. Da questa premessa derivano sia il sospetto di relativismo sia l’insuperabile diffidenza che determinate tradizioni religiose (o alcune loro correnti) nutrono nei confronti delle regole del gioco democratico.

È prassi consueta far risalire al grande giurista olandese Ugo Grozio la paternità dell’espressione etsi Deus non daretur.  La faccenda però è più complessa tanto sul piano filologico quanto su quello – più rilevante – di possibili analogie tra il senso di laicità introdotto dalla formulazione originaria e i compiti a essa affidati  negli attuali contesti democratici. Per  evidenziare le difficoltà basta riferirsi al concetto chiave di legge naturale. La pubblicazione del De jure belli ac  pacis  di Grozio (1625) segnò una pietra miliare sulla via del giusnaturalismo moderno. In quell’opera il diritto naturale è definito come «un dettato della retta ragione che indica come a una certa azione, secondo che essa sia o meno conforme alla stessa natura razionale, compete una condanna morale o una necessità morale, e che di conseguenza tale azione è vietata o prescritta da Dio, autore della natura». Si tratta di un diritto immutabile, al punto che Dio stesso non può modificarne il contenuto, così come  non può far sì che due più due non faccia quattro. Secondo Grozio, il carattere vincolante della legge naturale trova, perciò, il suo più autentico fondamento nell’oggettività razionale.

Nell’undicesimo paragrafo dei Prolegomeni al De jure, Grozio afferma che la legge di natura varrebbe «etiamsi dareumus  non esse Deum, aut non curari ab eo negotia humana», ipotesi che – si preoccupa di aggiungere subito l’autore – «sine summo scelere dari nequit». Il fatto che la legge naturale valga anche se, per assurdo, dicessimo che Dio non c’è (o che Egli non si cura delle vicende umane) dipende, in ultima analisi, dal fatto che la razionalità vincola Dio stesso. In altre parole, la distinzione tra bene e male è fondata su un dato oggettivo e non su un atto arbitrario di Dio.  La volontà divina non fa che aggiungere una ulteriore garanzia a questa base già salda. Inoltre, come posto in rilievo da Gustavo Zagrebelsky, nella formulazione originaria ci si trova di fronte non a un «come se Dio  non ci fosse» bensì a un «anche  se » (etsi o etiamsi non equivalgono a ut si). Grozio, dunque, non aveva affatto in mente alcun gioco delle parti che vede come protagonisti laici e credenti. Egli aveva sperimentato di persona come i contrasti su dogmi religiosi trasferiti in sede civile (nello specifico si trattava della lotta tra due correnti calviniste: i gomaristi e gli arminiani) potessero avere conseguenze nefaste: per aver appoggiato la linea perdente  (quella dei più tolleranti arminiani) Grozio fu condannato al carcere a vita (da cui evase rifugiandosi a Parigi). Collocato su questo sfondo, l’appello alla ragione naturale doveva costituire una base di consenso accomunante: l’etiamsi di Grozio si colloca, dunque, esattamente sull’altra sponda rispetto a qualsiasi pluralismo valoriale. Resta tuttavia vero che, storicamente, l’«anche se» ha giustificato, sul versante laico, l’affrancamento della speculazione sulle leggi umane dalle ipoteche teologiche, emblematicamente espressa dal detto silete teologici in munere alieno (formula coniata a fine ‘500 da Alberico Gentili).

 Piero Stefani

211 – Etsi Deus non daretur (1) – (29.06.08)ultima modifica: 2008-06-28T07:25:00+02:00da piero-stefani
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