210 – Interprete del Cantico dei cantici (22.06.08)

Il pensiero della settimana, n. 210

 

Lunedì 23 giugno, alle ore 21.00, presso lo Spazio Oberdan, Viale Vittorio Veneto 2, Milano: Lectio magistralis di Amos Luzzatto sul tema Se non vai tu dalla politica, è la politica che viene da te, in occasione dei suoi ottant’anni.

Intervengono: Giulio Giorello, Salvatore Natoli, Ferruccio De Bortoli e l’On. Piero Fassino.

Sarà presente Daniela Benelli, Assessore alla Cultura della Provincia di Milano. La serata è promossa e organizzata da Provincia di Milano/Settore cultura.

Nella stessa occasione verrà presentato il numero della rivista  Keshet dedicato agli 80 anni di Amos.
 

Anticipo, accompagnato dai miei più cari auguri, il contributo scritto per  Keshet (in ebraico «arcobaleno»)

 

Interprete del Cantico dei cantici 

 

Nel 1997 Amos Luzzatto ha pubblicato un volumetto intitolato Una lettura ebraica del Cantico dei cantici.[1] La presenza nel titolo dell’articolo indeterminativo è tanto ovvia quanto teorizzata dal libro stesso. Nell’ebraismo nessuna interpretazione è la definitiva. Perciò, secondo tutti i dettami ebraici, il lettore può conformarsi allo spirito del testo proprio discutendo la singolare, suggestiva interpretazione in esso  proposta.

Ogni lettore del Shir ha-Shirim è portato, versetto dopo versetto, a scoprirvi espressioni e peculiarità che non trovano riscontro in nessun altro testo biblico. Tra esse vi è un dato a un tempo iniziale e conclusivo: la voce che dischiude e sigilla il Cantico è quella di lei. Dopo la titolazione salomonica, spicca subito il volo il desiderio di Shulamit. Ella  chiede di essere baciata dai baci della sua bocca perché i tuoi amori sono ben meglio del vino (Ct 1,2). L’inebriarsi domina la scena. L’esaltazione avviene in presenza o in assenza di lui? Il trascorrere dai suoi baci ai tuoi amori, vale a dire il passaggio dalla terza alla seconda persona, significa forse che l’amato è comparso subito dopo essere stato invocato? Forse ora egli è lì davanti, come  persona che è effettivamente possibile abbracciare e baciare? Avvertiamo con certezza che la risposta è negativa. Se fosse diversamente ogni cosa accadrebbe troppo presto. Tutto terminerebbe ancor prima di cominciare.

Giunti alla fine del Cantico, dalle labbra di lei esce un imperativo intenso e inatteso: «fuggi, mio amato, quale cerbiatto o quale capriolo» (Ct 8,14). La parola femminile è un’inclusione che serra nel proprio abbraccio lo Shir ha-shirim; tuttavia essa non attesta alcuna circolarità. La conclusione del Cantico è aperta. Nulla si rappacifica nella stasi. Le parole di Shulamit non  proclamano un appagamento, non attestano un rilassamento. L’anelito è di nuovo suscitato e riproposto.

Molti sono gli itinerari che si possono percorrere per ritrovare nelle erranze, nelle attese e nei differimenti del Cantico il primato del femminile. Su tutte le vie possibili, la più stringente è forse quella scandita da tre dichiarazioni di lei che esprimono tre atteggiamenti di Shulamit nei confronti dell’amato. Nel primo ella esclama: «Mio è il mio amato ed io sono sua, di lui, che va a pascolare tra le rose» (Ct 2,16). Qui si prendono le mosse dalla certezza che sia stato lui a iniziare e che perciò l’amore di lei sia un contraccambio: io sono sua perché egli è mio. Questo approccio viene però rovesciato nel secondo verso in cui si dice: «io appartengo al mio amore ed il mio amato è mio, lui che pascola tra le rose» (Ct 6,3). Amos Luzzatto nella sua traduzione dilata ed esplicita il versetto che, reso alla lettera, suonerebbe semplicemente così: «io al mio amore e il mio amore a me». Ora è cessata ogni assicurazione preventiva; lo slancio iniziale è costituito dal donarsi di lei; ora è la risposta di lui a venire come conseguenza. Tuttavia vi è anche un terzo e conclusivo passo: «Io sono del mio amore ed egli mi desidera» (Ct 7,11). Qui è ancora lei a offrirsi e lui a rispondere; ciò però non avviene con un darsi simmetrico. In lui prorompe una componente erotica; eppure l’amore di lei non si tira indietro e accoglie come dono anche la passione.

A proposito di quest’ultimo passo dobbiamo compiere una precisazione. Il principio ermeneutico fondamentale secondo il quale la Scrittura si interpreta con la Scrittura, ci impone di distaccarci dalla resa proposta da Luzzatto e di tener conto di una rara parola ebraica presente nell’originale: «Il sono del mio amato e la sua teshuqà è sopra di me». Cosa significa questo termine?  Nella Bibbia esso compare soltanto tre volte; oltre che nel Cantico è infatti impiegato solo nella Genesi  (3,16;  4,17). Quanto ci interessa ora è soprattutto considerare il  passo tratto dal terzo capitolo del Bereshit. A esso allude anche Luzzatto là dove scrive: «Aggiungiamo subito una peculiare caratteristica dell’amore, quella dell’anelito verso l’oggetto dell’amore, che è espressa con eccezionale capacità sintetica in Genesi 3,16, laddove Dio annuncia, per l’avvenire, un anelito della donna verso il suo uomo» (p. 33). Forse è opportuno scavare un po’ più a fondo.  Ci troviamo infatti davanti a una realtà scompensata. La teshuqà è desiderio intenso, è brama. In base al suo etimo (da shuq «traboccare») la si potrebbe rendere con riversamento. La passione di lei tracima verso di lui. La risposta maschile non è però paritetica: la teshuqà è verso il tuo uomo, «ma egli  signoreggerà (radice mshl) in te» (Gen 3,16). Il Cantico, pur  non perdendo la connotazione erotica,  rovescia il versetto della Genesi: lei si dona e riceve in contraccambio la passione di lui. L’asimmetria resta, ma è di segno opposto e soprattutto è scomparso il senso del dominio. Nello Shir ha-shirim l’amore di lei sana la ferita antica. Il suo essere malata («perché io sono ammalata d’amore» Ct 2,5) diviene  risanante.

In riferimento al Cantico, Karl Barth ha scritto che il testo dà voce a colei che all’inizio non la ebbe: in principio l’uomo esclamò «è ossa delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2, 23), ma la donna restò in silenzio; nello Shir ha-shirim invece  «risuona una voce […] di cui si potrebbe sentire la mancanza in Gen 2, e cioè la voce della donna che guarda l’uomo e si avvicina a lui  con altrettanta impazienza e  gioia come lui a lei, e che lo scopre […] con non minore libertà di quella con cui lui scopre lei».[2] Forse non è proprio solo così. La voce e l’atto di lei non sono soltanto una risposta o compensazione; piuttosto esse fondano un primato: sono un itinerario che vince l’iniziale paura e l’originario bisogno di rassicurazione per dar spazio a un donarsi che va al di là del proprio appagamento. Per questo alla fine lei chiede all’amato di fuggire: lo fa  per poterlo amare di per sé e non per sé.

Colto sotto questa luce, una delle tante emanate dall’ iridescente poema biblico dell’amore, si può affermare che, forse, nessuna persona, nella sua esistenza, ha fatto proprio con maggior intensità lo spirito del Cantico quanto Eloisa. Lei lo dimostra soprattutto quando accoglie come dono la passione di Abelardo (per tanti aspetti emblema ante litteram del moderno intellettuale narcisista): «In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali, né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante […] Se Augusto stesso, signore dell’universo, si fosse degnato di chiedermi in sposa, se mi avesse offerto il dominio perpetuo sul mondo, mi sarebbe sembrata cosa più dolce e più bella essere considerata una prostituta qualsiasi e stare con te, piuttosto che essere un’imperatrice con lui.[…] La mia anima non era più con me; era con te. E anche ora, più che mai, se non è lì con te non è da nessuna parte. Senza di te non può stare, ma tu fa’ in modo che con te stia bene, ti prego. E sai che si troverà bene con te se ti troverà ben disposto, se le darai amore in cambio dell’amore che ti porta. […] Per me non ho serbato nulla, se non la possibilità di essere tua, solo tua». [3]

Amos Luzzatto ha colto tanto acutamente l’oggettivo primato della presenza femminile inscritto nel Cantico da renderla la sola a parlare, l’unica a dare voce all’amore. Nella interpretazione da lui proposta gli interventi maschili, così spesso convenzionali e ampollosi, sono una semplice proiezione compiuta nella propria immaginazione dalla giovane malata d’amore.  Nell’ambientazione teatrale proposta da Luzzatto (versione che non aggiunge né toglie una sola parola al testo biblico) a rappresentare i due personaggi è solo Shulamit. A mutare è unicamente l’accento della voce di lei. Ci sono motivi per sostenere e obiezioni per mettere in discussione questa radicale e originale riduzione. Rispetto alla percezione generale quanto fa problema è soprattutto il fatto che questa lettura sminuirebbe l’effettività del dono. Le parole dell’amato possono non contare, tuttavia lui deve essere presente in una dimensione più concreta di quella del sogno. La situazione descritta nel Cantico è  perciò paragonabile a quella del quinto canto dell’Inferno dantesco: a parlare è solo Francesca, ma nel turbine c’è anche Paolo. Pure  la Commedia  capovolge  la Genesi: in essa non c’è più l’unilaterale grido di gioia di lui, vi è invece  la parola di lei che dice la perennità di un legame  né rappacificato, né sciolto. Non solo, essa ripropone tanto le oscillazioni tra il darsi dell’amato a lei e il suo darsi all’amato, quanto la inestinguibilità della passione. «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese  costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. / Amor, che a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona» (Inferno V, 100-105). Fatto salvo ogni reale problema interpretativo, basti qui sottolineare che il legame con la bella persona sussiste anche quando costei è tolta. Nel Cantico la voce di lei, prima di dire «fuggi», aveva esclamato: «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6).

Allargare le braccia e stringere il corpo amato è di tutti, spiccare il volo è meno comune. Nel Cantico il primato della lettera sta in questa constatazione: solo aderendovi  possiamo cogliere pure gli altri possibili significati. L’amore fatto di baci e abbracci, è  la base che ci accomuna: «La ricerca umana di Dio è già più complessa, più implicita, più di élite, a volte difficilmente riconoscibile, a volte ambigua. La ricerca della persona amata è esperienza di tutti, di giovani e vecchi, ignoranti e colti, bianchi e neri. La liturgia dell’amore, con i suoi sapori, le sue parole e i suoi silenzi, i suoi occhi e le sue mani, non ha bisogno di alcuna didascalia. Si potrà – per vari motivi – censurarne le espressioni, ma la comprensione è garantita a tutti: qui veramente “de re nostra agitur”» (p. Dino Dozzi). Queste parole di un provinciale cappuccino indicano, in maniera indiretta, il perché la mistica trovi nel linguaggio erotico il fondamento stesso per poter dire l’amore di Dio. Se lo si riduce a puro espediente illanguidisce fino all’estinzione. A parti rovesciate, sostenere che si è afferrato il senso ultimo del Cantico solo quando, abbandonato ogni tentativo di trasporto simbolico, lo si è colto come pura celebrazione di un amore umano libero perché fondato su stesso è anch’essa interpretazione fuorviante. Lo è perché questa lettura tenta di celebrare una pienezza là dove c’è ancora ricerca e quindi inappagamento.

Dire che nello Shir ha-shirim non vengono compiuti effettivi atti sessuali non significa essere prigionieri di  moralismi. A esigerlo è l’intenzionalità stessa del testo. È palese che qui non si parla di sposo e sposa. Nel Cantico non sono coinvolte le istituzioni o le famiglie. In esso non si loda neppure un amore aperto al generare. Tutte realtà presentissime nella Bibbia, ma tutte dominate dall’iniziativa maschile. Nel poema amoroso non è così. La parola di lei descrive una ricerca investita dalla luce dell’attesa. Nulla comprende del Cantico chi non coglie nel suo simbolismo il primato del femminile. In esso la ricerca veste i panni dell’attesa, mentre quest’ultima esprime già in se stessa la più profonda ricerca del volto amato. Letto in modo simbolico lo Shir ha-shirim esprime assai più l’amore di Israele per il suo Signore  di quanto affermi l’amore di Dio per il suo popolo. Assunta in questa angolatura l’interpretazione di Luzzatto ha molto da insegnarci.

Ogni trasposizione simbolica del Cantico deve aderire alla grammatica dell’amore che ricerca attendendo. Se il nostro camminare ci portasse a Dio la meta non sarebbe l’Amato: il sentiero ci condurrebbe solo a un idolo costruito dalle nostre mani. Nell’attesa, nello struggimento, nell’essere malati d’amore è contenuta una drastica denuncia antidolatrica. L’Amato, da un capo all’altro del Cantico, è lì, è bellissimo, sembra raggiunto, ma poi fugge. L’inappagamento per ogni meta che appariva già conseguita indica che le nozze sono ancora da venire: ci manca sempre qualcosa. 

 Piero Stefani

 




[1] A. Luzzatto, Una lettura ebraica del Cantico dei cantici, Giuntina, Firenze 1997. Salvo diversa indicazione le citazioni del Cantico provengono da questa traduzione.

[2] K. Barth, Kirch. Dogm.  III/2, p. 355 cit. in  H. Gollwitzer, Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna. Il Cantico dei cantici, Claudiana, Torino 19852 , p. 85.

[3] Dalla prima lettera di Eloisa ad Abelardo, ca. 1135 .

 

210 – Interprete del Cantico dei cantici (22.06.08)ultima modifica: 2008-06-21T07:30:00+02:00da piero-stefani
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