212 – Etsi Deus non daretur (2) – (06.07.08)

Il pensiero della settimana. n. 212

 

Il giusnaturalismo «duro e puro» è ormai, da molto tempo, alle nostre spalle. Più che lo storicismo idealista a farlo tramontare, sul piano della prassi, fu l’affermarsi della codificazione, opzione rispetto alla quale Napoleone, in varie parti di Europa,   lasciò un’impronta ancora più duratura delle sue imprese imperiali. Anzi, non sembra azzardato sostenere che lo stesso positivismo giuridico, in base al quale il riferimento fondativo non può andare al di là delle procedure legislative, non sarebbe mai sorto senza la pletora di leggi propria del XIX e XX secolo. Gli orrori dei totalitarismi, in cui la correttezza formale fu, non di rado, posta al servizio della disumanità, riaprirono degli spiragli a un diritto naturale proposto in formule più leggere. In quest’ambito rientra anche la laica (non ci si appella ad alcun Essere supremo)  Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Tuttavia, a sessant’anni di distanza, quest’ultimo documento non gode più di buona salute. A renderlo inferno, oltre alla sua debolezza costitutiva che lo priva di cogenza, sono gli assalti portati  nei suoi confronti in nome del multiculturalismo. In quest’ultimo ambito ha voce in capitolo anche il riemergere delle religioni (cfr. per es. La dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo, 1980).

Nel contesto dischiusosi negli ultimi decenni da parte cattolica si è voluto riproporre  una più intima connessione tra una legge naturale razionale e l’autorità divina che la fonda. In questa prospettiva non vi è più spazio per l’ipotesi estrema dell’«etiamsi dareumus non esse Deum»; quest’ultima formulazione, infatti, lungi dall’essere colta  come un mezzo per rafforzare l’universalità, è giudicata una specie di testa di ponte del relativismo. Il clima introdotto dal ritorno delle religioni, perciò, ha dischiuso a una parte del mondo cattolico la possibilità di riproporre il proprio paradossale specifico che trova riscontro nella volontà di affermare una universalità valida per tutti. Una determinata tradizione religiosa si propone, quindi, come custode privilegiato dell’umano. Riferendosi ai dieci comandamenti (considerati l’espressione più adeguata della legge naturale) Giovanni Paolo II ha scritto: «Proprio questo codice morale proveniente da Dio, codice sanzionato nell’Antica e nella Nuova Alleanza, è anche l’intangibile base di ogni legislazione umana in qualunque sistema e, in particolare, in quello democratico. La legge stabilita dall’uomo, dai parlamenti, e da ogni altra istanza legislativa umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura cioè, in definitiva, con la Legge eterna di Dio […] In quanto “ordinamento della ragione”, la legge poggia sulla verità dell’essere: la verità di Dio, la verità dell’uomo, la verità della stessa realtà creata nel suo insieme. Questa verità è la base della legge naturale. Ad essa il legislatore aggiunge l’atto di promulgazione. È quanto avvenne sul Sinai per la Legge di Dio, è quanto avviene nei parlamenti per le varie forme di interventi legislativi».[1]  Da ciò consegue che non esiste  più alcun foro che vada considerato alieno ai «teologi».

Orientato a coniugare il discorso sul piano più morale che legislativo, il card. Ratzinger si è più volte confrontato con l’ipotesi del etsi Deus non daretur. In varie occasioni egli ha affermato che i cattolici, nel corso del necessario dialogo con i  laici, devono restare molto attenti a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione creatrice e che è quindi aperta a tutto ciò che è veramente razionale. A partire da questa prospettiva, Ratzinger avanza una proposta rivolta ai laici: «nell’epoca dell’Illuminismo si è tentato d’intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze della varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità […] Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse».[2]

Norberto Bobbio ebbe occasione di ricordare che, a suo tempo, l’invito ai non credenti di agire «come se Dio esistesse» era stato avanzato anche da Gaetano Salvemini.[3]  Ma al di là di questo curioso richiamo,  il problema  fondamentale legato a questa formulazione sta nel chiedersi perché i laici dovrebbero accettare l’asimmetria qui proposta e ritenere impossibile fondare una morale senza l’ipotesi Dio. Quando ci si appella al «come se» (veluti si)  non ci si muove più nell’ambito della pura razionalità. La dimensione razionale non è estromessa, ma ad essa va aggiunto altro (per esempio la «meccanica spirituale» propria della finzione ripetitiva e l’umiliazione delle passioni come avviene in Pascal, impropriamente citato da Ratzinger). Il passaggio dall’«anche se» al «come se» ridefinisce tutto il problema. A   essere ridimensionata in questo mutamento è innanzitutto proprio la fiducia in una ragione che tutti ci accomuna. Inoltre, l’universale accettazione come ipotesi di quello che per alcuni è certezza contraddistingue, per forza di cose, una disuguaglianza che configge con le regole base del gioco democratico. Prescindendo da sostegni interessati, la proposta non sembra quindi prospettare soluzioni adeguate a un problema reale

A qualcuno potrà sembrare strano che in questo articolo non sia mai fatto riferimento a un altro celebre etsi Deus non daretur quello scritto da Dietrich Bonhoeffer in una lettera dal  carcere.[4] Il motivo è chiaro: tutto quel profondo pensare  vale per il credente a cui prospetta la necessità di liberare la fede dal suo involucro religioso. Quelle considerazioni perciò da un lato sono fondamentali  per stabilire il modo in cui il credente deve stare nel mondo e, dall’altro, sono significative per i laici in quanto li pongono di fronte al linguaggio più consono alla fede, quello della testimonianza. In questo senso esse sono davvero «altro» rispetto alle considerazioni qui dipanate. Vi sono modi autentici di vivere la fede che impongono ai credenti di far proprio l’etsi Deus non daretur; mentre non vi è ragione cogente che li induca a proporre ad altri il veluti si Deus daretur.

Piero Stefani

 




[1] Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, p.161.

[2] Card. J. Ratzinger, «L’Europa e la crisi delle culture» in Il Regno-documenti 9,2005,  219.

[3] Cit. in  G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse; i laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, Torino 2000, p. 20.

[4] «E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – “ etsi Deus non daretur”. E appunto questo riconosciamo – davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento» lettera del 16 luglio 1944  in D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 440.

212 – Etsi Deus non daretur (2) – (06.07.08)ultima modifica: 2008-07-05T07:20:00+02:00da piero-stefani
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