209 – Napoli: percezioni di cinque mesi (15.06.08)

Il pensiero della settimana,  n. 209

 

Campania, preludio di primavera 2008: alberi fioriti bianchi e rosa, piante di agrumi gialle e arancioni si ergono placide e immemori tra distese di gonfi sacchetti di plastica chiari e scuri.

 

Nei pressi della stazione centrale sotto la pioggia: mercanzie per terra vigilate da neri che le avevano prima coperte con teli di plastica. Ombrelli portati in giro dentro carrozzine per bambini da uomini di tutte le etnie, precari ombrelloni di bancarelle che sgocciolano su scarpe falsamente firmate e soprattutto l’impressione inestirpabile che i venditori siano sempre più numerosi di tutti i potenziali acquirenti: a volte anche il tirare a campare diviene mistero o forse un  mezzo miracolo da cui è bandito ogni riferimento al soprannaturale.

 

Una volta c’era la casetta con il perno di budello che faceva uscire la donna con l’ombrellino quando pioveva e l’aitante giovanotto se c’era bel tempo; oggi ci sono gli ambulanti di ogni etnia: due gocce e dal nulla sbucano grappoli di ombrelli, un pallido raggio ed ecco distese di occhiali da sole pseudofirmati.

 

La compravendita sembra violare ogni regola della domanda e dell’offerta, ritenuta la più solida tra tutte le leggi economiche. Non ci sono grida di invito, poche sono le sollecitazioni; domina una nera, statuaria immobilità dei venditori che accettano la vendita di una borsa come si accoglie la sentenza di un medico dopo un esame clinico.

 

Cornetti rossi portafortuna: «non è vero ma ci credo» è un paradosso a suo modo accettabile; «cornetti collaudati» è un ossimoro che trasferisce un’espressione da ingegnere a un oggetto di curvilinea irrazionalità.

 

Villa Ruffo-Scaletta a Posillipo: all’edificio bianco, squadrato, di elegante semplicità segue un cupo precipitare selvoso verso il golfo protetto dai grandi, affettuosi ombrelli dei pini, il grigiore del cielo è vinto da tutto il resto.

Finestra a Posillipo che guarda sul Golfo in un mattino nuvoloso. Scia: lancia argentea che lentamente si riconfonde con le variazioni di grigio, estese dal plumbeo al chiaro, del grande abbraccio acquatico.

Scie. Schiume e increspature durano poco:  uno specchio del vivere emozionale  nel mare dei nostri giorni.

Un po’ più in alto, nei pressi di un edificio che si chiama Paradisiello al pino: attraverso i pendagli gialli dei limoni e le spruzzate bianche dei fiori di pruno si vede lontano il mare rigato da bagliori plumbeo-argentei.

 

Chiostro di S. Chiara: la perfezione vuole confini. L’hortus è completo quando è conclusus. L’Eden e il giardino musulmano sono cintati. Il vegetale si sposa con le alte pareti di pietra, con il vuoto degli archi e l’azzurro delle maioliche.

 

 

Corso Vittorio Emanuele, curva e in gran parte panoramica neospaccanapoli in cui si percepisce già la storia ma da cui è preclusa ogni antichità. All’altezza della Funicolare centrale basta curvare verso ovest e si precipita nei quartieri spagnoli. Sono sufficienti pochi metri e il clima muta di colpo. Si entra nel regno contraddistinto dal mescolarsi continuo di dentro e fuori: si possono immaginare le stanze sulla strada, non meno gli scooter –  e forse  persino le automobili – nelle cucine. Lì si vedono ancora bambini sporchi scorazzare per la strada tra le verdure in vendita e i cortili in cui dalla pietra ocra sbucano rigogli vegetali che succhiano misteriose energie da vasi che sembrano irrimediabilmente troppo piccoli per giustificare la dimensione  e il vigore delle piante.

 

Chiese. Stendhal definì il finale del primo atto dell’Italiana in Algeri come un caos organizzato, vale a dire una follia ricondotta ad armonia e viceversa. La chiesa di S. Domenico maggiore rievoca un poco questa definizione; eppure non sono parole del tutto calzanti. Forse occorrerebbe parlare di un ordine caoticizzato. L’integrazione delle epoche, fattasi pietra, può avvenire in una chiesa solo attraverso l’assemblaggio. Gli edifici non sono esseri viventi, non conglobano in loro stessi le mutazioni in una ricapitolazione organica. Il loro destino è la sovrapposizione. Molte chiese condividono questa sorte, ma in San Domenico, oltre ai tempi  sovrapposti, vi è anche la perdita di orientamento spaziale. Non si sa dov’è la facciata, chiusa nel perimetro di un cortile squadrato. In essa residui gotici sovrastano interventi barocchi e l’andamento tondo di una cappella sfonda le linee.  Non si sa dove sia l’abside visto che si può entrare di lì ed è essa a declinare, attraverso una scalinata,  su una piazza, munita di una ricca poderosa lanterna. San Domenico è un edificio che a un tempo attrae e respinge; ciò lo rende un simbolo di Napoli, città che dentro il suo attrarti ti respinge e dentro il suo respingerti ti attrae. Perciò sempre e comunque inquieta.

Gesù nuovo. Superato il tozzo, ruvido bugnato della facciata si entra in una serie di piazze interne. Nonostante la cupola, l’orizzontalità vince sulla verticalità. Si accede al dominio incontrastato dei marmi, delle statue, della policromia. Lì si distende lo sfarzo e si concretizza il tentativo di attribuire un’iperevidenza alla gloria divina. Dirimpetto c’è S. Chiara ora spoglia nella sua grandezza. Gesuiti controriformisti e francescani medievali monumentalizzati trovano in questi due edifici specchi ancora parlanti di una cattolicità in cui l’universalismo, racchiuso nell’etimo, si esplica nella capacità di accostare gli opposti senza introdurre tra essi la dialettica serietà del negativo.

 

Ovunque sui tetti, alle vecchie spille di sicurezza delle antenne, si affiancano nugoli di bottoni con l’ago infilato delle paraboliche.

 

Ad aprile erano fioriti i glicini le cui volte lilla si incontravano con stanchi limoni dal giallo declinante.

Aprile preodoroso a Posillipo: come nella notte la pantera fa balenare i propri occhi prima del balzo, così le zagare fanno presentire il loro profumo prima dell’esplosione (e i gelsomini accettano la sfida).

 

A maggio (prima dei disordini). Forse in attesa di calcolati e sospetti interventi taumaturgici, l’invasione dell’immondizia riprende. Si scavalcano sacchetti, strati di bottiglie, sedie rotte, assi da stiro, ci si imbatte in macchine da scrivere, squadrate e nere allineate sui marciapiedi. Gelsomini, ginestre e caprifogli cercano invano di contrastare, con la gentilezza del loro profumo, l’acre odore che si espande per l’aria. Nel frattempo gerani e bouganville danno a muri e balconi coloriture rosso-violacee con colpi di rosa: il loro dominio si estenderà per mesi e sfiderà, impavido, la calura.

 

Nei pressi della stazione di Montesanto. Ormai a giugno è giunto il tempo in cui le uniche barriere tra strada e case sono le piccole balaustre a volte erette davanti alle porte e la soglia in piastrelle che dà sulla cucina-soggiorno. Gli stenditoi paiono staccionate che delimitano inesistenti giardinetti. L’esterno e l’interno si congiungono in uno scambio che, quando non prevede suoni e movimenti, si affida all’osservazione di donne e vecchi che siedono davanti a casa o sporgono «dalla cintola in su» dalla parte bassa delle porte d’ingresso dal battente diviso. Il collegamento dinamico tra dentro e fuori è appannaggio soprattutto dei bambini. Nella piazzetta dell’Olivello escono ed entrano di corsa dalla stazione assieme a un cane, sgusciando tra bancarelle di poche scarpe e berretti le quali, al pari delle panchine, sembrano rientrare più nell’arredo urbano che nelle attività commerciali. Tra di loro vi è un ragazzino un po’ più cresciuto che tende all’obesità. Il suo volto ha un’attaccatura di capelli che lo priva quasi della fronte ridotta alle dimensioni di piccola finestrella. La bocca, perennemente aperta, è muta. Sguardo e profilo sono testimonianze viventi di remotissimi antenati paleontologici. Mentre si lotta per scacciare pensieri non buoni, si avverte alle spalle un rumore come di fontanella, ci si gira: è lui che fa pubblicamente pipì davanti all’entrata della stazione. Né i bambini che lo circondano, né altri dicono nulla. Il mancato commento, più che indifferenza, appare una forma rozza e spontanea di accoglienza o, forse meglio, di non discriminazione (la scena non sarebbe però immaginabile nel quartiere di Chiaia e neppure al Vomero o a Posilippo).

 

Metamorfosi dell’imperativo di ricordare. Su un muro, scritto in un risoluto carattere stampatello in nero, si legge: «Per non dimenticare.  11.5.2008:  Napoli Milan  3 a 1».

 

Mercificazione della cultura o spirito del tempo? Appeso alla cabina del telefono e sui lampioni si legge: « – euro + laurea. Anche nella tua città Eurolaurea: ti libera dagli esami universitari». In alto vi è questa scritta: «2 esami gratis». Un asterisco rimanda a una precisazione composta in caratteri più piccoli: «se acquisti almeno la preparazione a cinque esami».

209 – Napoli: percezioni di cinque mesi (15.06.08)ultima modifica: 2008-06-14T07:35:00+02:00da piero-stefani
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