208 – Le divisioni della chiesa (08.06.08)

Il pensiero della settimana, n. 208

 

Massimo Faggioli, è uno storico della chiesa  formatosi presso la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. L’ “officina bolognese”, che ha avuto per molti anni nel compianto Giuseppe Alberigo il suo riferimento principale, ha incentrato la propria attenzione sul concilio Vaticano II ed è appunto su questo terreno che l’opera del ferrarese Faggioli ha dato i suoi primi, dettagliati  frutti (cf. Il vescovo e il concilio. Modello episcopale e aggiornamento al Vaticano II,  il Mulino, Bologna 2005). Come è proprio del buon ordine degli studi, solo dopo essersi cimentati nelle analisi ci si può avventurare, con frutto, nel campo della sintesi. È quanto Faggioli compie ora con il libro, Breve storia dei movimenti cattolici (Carocci, Roma 2008, pp. 146, € 13,00).

Il testo si apre con una domanda imperniata su un termine volutamente ambiguo: «Quali sono le divisioni della chiesa?». L’espressione evoca da un lato la presenza di una forza militante, dall’altro la mancanza di compattezza. Proprio tale ambivalenza rivela  la chiave interpretativa proposta da questo studio. Il problema può essere riassunto attraverso due alternative enunciate da Faggioli nei seguenti termini: «il movimentiamo cattolico è una declinazione […] della fine dell’età costantiniana, di cui parlava il domenicano Marie-Dominque Chenu? Oppure il movimentismo nella chiesa è piuttosto il rigetto dell’idea del congedo dall’età costantiniana e il tentativo di recuperare sul piano sociale e comunitario quanto perduto sul piano politico?» (pp. 14-15). In altri termini, questo fenomeno intraecclesiale nato, nella sua accezione moderna, nel XIX sec. è segno della forza o della debolezza della chiesa?

Gli interrogativi fin qui avanzati indicano con chiarezza che l’approccio proposto da Faggioli è di ordine storiografico. L’attenzione perciò si incentra sulla collocazione dei movimenti all’interno della chiesa cattolica e forse ancor di più sugli atteggiamenti assunti dalla gerarchia nei confronti di essi. Non a caso le grandi scansioni temporali del libro sono basate soprattutto sui pontificati. Questa scelta mostra un respiro più ampio rispetto all’ approccio al fenomeno dei movimenti improntato alla sociologia della religione.  In questo senso, la ricerca proposta dalla Breve storia costituisce un apporto di grande pertinenza. Lo studio non entra nell’ambito della spiritualità. Peraltro, salvo qualche eccezione (in Italia bisogna andare indietro forse fino a Giuseppe De Luca), le ricerche sulla storia della spiritualità si collocano di solito in un ambito marginale. La ragione è semplice da motivare: gli autori spirituali sono poco sensibili alla dimensione storica, la quale relativizzerebbe un orientamento che tende verso l’assolutizzazione anche quando è volto a  tratteggiare una spiritualità consona al proprio tempo. Tuttavia proprio quest’ultimo approccio sarebbe il più fruttuoso per comprendere il perché le persone aderiscono a questo o a quel movimento. La ricerca di Faggioli, illuminante sotto molti aspetti, su questo fronte non fa crescere in modo sensibile la comprensione.

Il problema  dei movimenti nasce  in maniera preponderante nel corso del XIX sec.   In quell’epoca, infatti, si era già consumato l’indebolimento del modello di chiesa proposto dal concilio di Trento. Esso ebbe il proprio fulcro nel controllo ecclesiastico del territorio. Il rafforzamento delle diocesi, attraverso l’obbligo di residenza da parte di vescovi e parroci, i seminari, le visite pastorali ecc.,  fu la spia più evidente di un radicamento territoriale consono al regime di cristianità. In altre parole, secondo questa visione, l’essere cattolici precedeva la scelta personale di diventarlo. L’avvento della secolarizzazione, con la conseguente non coincidenza tra l’appartenenza alla società e il far parte di una chiesa, ha creato lo spazio in cui si poteva affermare la logica movimentistica. In quest’ ottica – seguendo un’intuizione di Elmar Salmann – non sarebbe sbagliato sostenere che,  in un certo senso, alcune dinamiche tipiche dei movimenti si riscontrano già nel  giansenismo. Non è, infatti, errato attribuire ai giansenisti la triplice, precoce intuizione: 1) che l’epoca moderna avrebbe condotto alla fine del regime di cristianità; 2) che la fede cristiana vissuta non coincide con l’appartenenza alla cristianità; 3) che in questa situazione occorreva attrezzarsi al fine di presentarsi come minoranza consapevole all’interno della società.

Ogni movimento fa propria la convinzione che l’appartenenza nominale alla chiesa non è sufficiente per essere all’altezza di quanto è chiesto dal vangelo. La constatazione  vale sia per laici sia per consacrati, ma è chiaro  che, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, sono i primi a costituire il fulcro del problema, vuoi per la necessità di indicare una strada di fede che non coincide di per sé con l’appartenenza a un gruppo di consacrarti, vuoi per la loro massiccia presenza all’interno di una società non più solo cristiana. Ciò fa sì che la questione dei movimenti si incroci in modo costitutivo con quella del laicato. I laici membri di associazioni e movimenti si sono, a lungo,  presentati come le divisioni della chiesa  nel senso battagliero del termine. Essi dovevano costituire una presenza testimoniale, consapevole e riconoscibile (nella sua epoca d’oro, l’Azione Cattolica diede, non a caso, un peso specifico assai notevole al distintivo). Tuttavia i movimenti palesano anche le divisioni nella chiesa in quanto i loro orientamenti sono, in più punti, reciprocamente  eterogenei o addirittura divergenti.  I due fronti su cui maggiormente si misurano le dinamiche della diversità sono il rapporto del singolo movimento con la gerarchia e il modo di pensarsi all’interno del contesto civile: alcuni si propongono come minoranze consapevoli di essere tali, altri si considerano una testa di ponte per la riconquista cristiana della società.

Nel caso di movimenti fortemente legati al carisma del fondatore (o fondatrice),  si può ben comprendere perché, specie a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, siano insorte tendenze volte a corredare l’obbedienza interna al leader con un appello alla centralità del papa lontano, fatto che, non di rado, è foriero di problemi sul fronte del  rapporto con la chiesa locale (cfr. p. 113; si pensi a temi come la parrocchia vista come “comunità di comunità” o all’occupazione liturgica di spazi comuni, ecc.). Determinati movimenti attribuiscono, però,  all’inserimento nella chiesa istituzionale  un ruolo qualificante della loro specificità. Passando all’altro versante va registrata l’oscillazione tra l’accettazione di essere minoranza (il che va spesso di pari passo con una vocazione di tipo dialogico) e l’idea di presentarsi come strumento di una riconquista cristiana della società.

In base alle griglie sopradescritte si coglie la pertinenza del rapido e riassuntivo schema classificatorio proposto da Faggioli verso la conclusione del suo lavoro. Esso distingue tra: «i movimenti-associazioni caratterizzati da un alto grado di istituzionalizzazione e da una qualche autonomia dalla gerarchia ecclesiastica (Azione Cattolica, agesi); i movimenti della revanche legati ad una cultura politica e religiosa anti-liberale (Opus Dei, cl, Legionari, Cursillos); i movimenti di tipo “pentecostale” (rns, Neocatecumenali, Focolarini), le élite spirituali “laicali” e monastiche eredi del ressourcement e del rapprochement, del “ritorno alle fonti” della grande tradizione del cristianesimo indiviso e del “ravvicinamento” con le altre chiese e con le donne e gli uomini del nostro tempo (Bose, Comunità di Sant’Egidio)» (p.119).

In definitiva, l’interpretazione proposta da Faggioli pare culminare nella messa in rilievo di questi tre punti:  la fine dell’età costantiniana come orizzonte  necessario per comprendere il sorgere e lo svilupparsi dei movimenti; la  problematicità delle operazioni legate al tentativo di riconquistare l’egemonia all’interno della società civile e, infine, l’opinione secondo cui: «i vescovi e il laicato “sfuso” sembrano essere i veri sconfitti nella chiesa post-conciliare, di fronte alla “primavera dei movimenti”» (p. 96).

Il concilio Vaticano II, aggiungiamo, ha qualificato la Gaudium et spes come costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo. Nella preposizione «in» sta la componente più qualificante della dicitura. Neppure il concilio, però, è riuscito a far trascrivere, con debita intensità,  lo stesso spirito in sede locale. In effetti, se si fosse riposto nelle singole diocesi l’originario modello neotestamentario della «Chiesa di Dio che è in …» molte realtà rispetto ai movimenti sarebbero state diverse da quelle analizzate in questo libro.

 Piero Stefani

208 – Le divisioni della chiesa (08.06.08)ultima modifica: 2008-06-07T07:40:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo