156 – All’ombra di una interminabile transizione (29.04.07)

Il pensiero della settimana n. 156.

 

Erano poco  più che ventenni, ma discutevano di grandi eventi capitati da pochi mesi; eppure già allora era difficile conservarne in maniera giusta la memoria. I due erano Italo Calvino e un suo amico. Entrambi avevano partecipato alla Resistenza, il secondo  come commissario, il primo come semplice garibaldino. Già nel corso del 1945, a pochi mesi dalla Liberazione, sembrava loro che tutti  parlassero di quel grande avvenimento in modo sbagliato. Si stava creando una retorica che nascondeva la vera essenza e il carattere primario della Resistenza. A distanza di quasi vent’anni Calvino, di quelle discussioni, ricorda la polemica contro le immagini mitizzate e la volontà di ricondurre la coscienza partigiana a un quid elementare, presente nei più semplici dei compagni e diventato, per i due dialoganti, la chiave della storia presente e di quella futura.

Le frasi scritte da Calvino nella prefazione alla riedizione del 1964 del Sentiero dei nidi di ragno sono accostabili ad altre uscite dalla bocca di uno dei compagni prima evocati:  «Io ho fatto la Resistenza, ma mentre la facevo non avrei mai immaginato che fosse una cosa tanto complicata come ora la state facendo voi. Per me fu semplice». Sono parole di un anziano signore pronunciate, dal pubblico, nel corso di un convegno di storici e riportate dall’amico Fiorenzo Baratelli nella penultima puntata della sua rubrica “Controcorrente” pubblicata sulla Nuova Ferrara. Questo quid più semplice non è trascrivibile  in termini rigorosi:  per un verso è sfuggente e per l’altro fondamentale. È vero nel momento in cui non è mitizzato come un assoluto.

Poche righe dopo aver ricordato la sua precoce delusione, Calvino sostiene che per molti dei suoi coetanei «era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile». La consapevolezza  dell’aleatorietà dei fattori che presiedono alle scelte, anche le più decisive e potenzialmente fatali, è molto alta. Essa, da sola, risponde a ideologizzate ricostruzioni storiografiche che vogliono privare la Resistenza di un’aura mitica in cui netta e insuperabile è la contrapposizione tra luce e tenebre, nelle quali il bene sta tutto da una parte e il male tutto da quell’altra. 

Non ci sono dubbi: il detto secondo cui la giustizia fugge dal campo dei vincitori vale anche per i partigiani, massimamente in relazione alle esecuzioni sommarie e alle non marginali stragi compiute dopo il 25 aprile. Piazzale Loreto è un orrore, non un mito fondativo. È un gesto che avrebbero potuto fare anche gli «altri», perché, come sempre avviene nella vendetta, fa propria la logica altrui. Con tutto ciò occorre salvaguardare quel ‘quid’ elementare che segna uno spartiacque invalicabile tra le due parti e che fa sì che libertà e democrazia non siano parole vane. Da questo punto di vista, è, e deve restare, semplice sapere da che parte schierarsi. Colto in quest’ottica, bisogna ribadire che ha vinto la parte giusta per una ragione diversa da quella di essere semplicemente quella dei vincitori. Il nucleo della memoria della Liberazione sta tutto qui. Esso però è trasmissibile come ‘festa di tutti’ solo se, senza negare le ambiguità, gli errori, le incertezze, le efferatezze, si ripete che ha prevalso la ‘parte migliore’. Bisogna essere, a un tempo, risoluti e in grado di guardare in faccia il lato mancante. In caso contrario, si lascia mano libera a chi, individuando, tendenziosamente, una crepa nella casa, mira a distruggerne le fondamenta. Ben si intende, ciò non avviene proponendo un impossibile ritorno al fascismo. L’operazione è diversa: essa si riassume nella pretesa di screditare i valori fondativi della Repubblica italiana, nata dalla Resistenza, a motivo della loro origine e non della loro dilapidazione avvenuta nel corso dei decenni. Intelletti sottili come William James e Ludwig Wittgenstein hanno mostrato l’inconsistenza della volontà di smascherare i valori morali con il pretesto di ricondurli alle circostanze empiriche che hanno indotto a scegliere per l’uno o per l’altro. Il letame concima i fiori, ma i fiori non si riducono a letame.

L’auspicio del Presidente della Repubblica che il 25 aprile sia una festa di tutti è doveroso, ma anacronistico. Da tempo non è più così e non solo per la presenza di insensate e faziose contestazioni di piazza. Dal punto di vista politico (e forse etico) non lo è più perché l’interminabile transizione tra una prima Repubblica dichiarata precocemente morta ben prima di esalare l’ultimo respiro e la nascita della seconda, tuttora deforme embrione, corrode, anno dopo anno, i «miti fondativi» della nostra costituzione e crea, oggettivamente, lo spazio entro cui pullulano ricostruzioni ideologiche della storia compiute per secondi fini (scritto con la lettera minuscola). Non stupisce,  perciò, constatare che la fauna più adatta a questo habitat sia quella dei giornalisti autodichiaratisi storici.

Piero Stefani

156 – All’ombra di una interminabile transizione (29.04.07)ultima modifica: 2007-04-28T11:35:00+02:00da piero-stefani
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