149 – Inventarsi eredi, figlie di Zelofcad (11.03.07)

Il pensiero della settimana, n. 149

 

Essere eredi appare, sulle prime, una condizione data e non scelta. È come per la nostra esistenza: altri hanno deciso per noi. Dipendiamo da quanto ci ha preceduto. Qui la diacronia non sgarra: i genitori precedono sempre i figli. Tuttavia l’eredità può essere accolta e rifiutata. Di norma prevale la prima opzione; ma non è ignota neppure la seconda; specie se l’eredità è di tipo spirituale o culturale non è affatto raro che sia respinta. Tutte queste considerazioni valgono, però, partendo dal presupposto che vi siano eredi. La consegna può diventare dramma se manca chi può riceverla. Il quadro si fa appena meno desolato se si può contare su un ripiego.

 «Mio Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco» (Gen 15,2). La vicenda di Abramo, padre dei credenti, mostra che la storia della fede inizia con la divina invenzione di un erede: Isacco. Quando il Signore è all’opera tutto diviene possibile (Gen 18, 14; Lc 1,37). Tuttavia vi sono casi in cui l’iniziativa va presa, per così dire, dal basso e, addirittura, da parte di chi deve ricevere e non di chi è tenuto a consegnare. Ci sono circostanze in cui si è chiamati a inventarsi eredi. Anche in questo caso ex nihilo nihil fit; qualcosa va comunque presupposto. Eppure, non di rado, ci si trova nella situazione di rendere fune quanto, in principio, si dà solo come esile filamento. Essere eredi, specie ai nostri giorni, implica un grado di passività sempre minore.

Il libro dei Numeri riporta un episodio legato alle figlie di Zelofcad (27,1-11; 36,1-12). Si tratta di cinque donne che, pur essendo qualificate sempre come figlie del loro padre, emergono come soggetti attivi capaci di rivendicare il diritto all’eredità. Avanzano questa pretesa a partire dalla constatazione negativa che nella loro famiglia non ci sono più maschi. Come spesso avviene nella Bibbia, le donne assumono in proprio un ruolo attivo sullo sfondo di un ‘venir meno’ (si pensi alle vedove) o comunque di un’assenza (come nel caso di donne sterili).

Le figlie di Zelofcad, in quanto esponenti ormai uniche della loro famiglia, si rivolgono a Mosè e gli chiedono: «Perché dovrebbe il nome di nostro padre scomparire dalla sua famiglia, per il fatto di non avere figli maschi? Dacci un possedimento in mezzo ai fratelli di nostro padre» (Nm 27,4). I termini della questione, si noti, si riferiscono non a una proprietà terriera già goduta, bensì a una dimensione collocata nell’orizzonte della promessa (in questo caso la futura spartizione della terra d’Israele). Le donne chiedono la loro porzione di terra di Canaan quando sono ancora nel deserto. Si candidano perciò a essere eredi di una speranza. Mosè accoglie il suggerimento portandolo davanti al Signore, il quale gli risponde in questi termini: «le figlie di Zelofcad dicono bene. Darai loro in eredità un possedimento fra i fratelli del loro padre e farai passare a esse l’eredità del loro padre» (Nm 27,7). In seguito il Signore rese la decisione norma generale in Israele (cfr. Nm 36,1-12).

Per la Scrittura le cinque figlie di Zelofcad restano qualificate semplicemente dal loro essere sostitute di maschi assenti, eppure le loro parole vengono fatte proprie addirittura dal Signore, il quale non solo le approva ma le tramuta in norma generale e perpetua in Israele. Una richiesta avanzata dal basso da parte di donne diventa, quindi, per la Bibbia una legge valida tanto quanto una norma rivelata sul Sinai. La vita del popolo di Dio importa al Signore. Egli stesso tiene conto di un’esistenza che, nel suo sviluppo, prospetta nuove situazioni. La ripetizione letterale tende ad autopresentarsi come il sigillo della fedeltà; tuttavia essa, a volte, appare piuttosto una via destinata a condurre, passo dopo passo, fino all’estinzione.

L’episodio delle figlie di Zelofcad conferma che per la Bibbia le donne partecipano in modo integrale (anche se non paritetico) all’alleanza. Esse si mostrano sollecite a intervenire  non per avanzare pretese su beni già a disposizione (tipico motivo di contrasti ereditari), bensì perché non sia estinto il nome (e quindi il ricordo) paterno. Il loro impegno, inoltre, è rivolto verso l’avvenire di una promessa. Il ricordo si congiunge alla speranza che il popolo di Dio possa avere un domani più pieno di quanto avverrebbe se loro fossero state accantonate.

Nella chiesa cattolica dei nostri giorni non mancano voci consapevoli di molte figlie di Zelofcad. Esse chiedono di essere partecipi all’eredità perché la comunità possa avere un futuro. Sanno, infatti, che la ripetizione pedissequa è miopia, non fedeltà. Le donne vogliono divenire pienamente eredi perché il ricordo del passato possa aprirsi anche verso l’avvenire. In genere ad esse, però, non tocca in sorte di trovare un Mosè capace di portare la loro (e non solo loro) causa davanti a Dio. Al Signore è così negato di prestar ascolto alle istanze avanzate dal suo popolo. I difensori e gli sterili ripetitori della norme, bloccano il mutamento anche nei tempi di penuria. Il ruolo delle figlie di Zelofcad non è trionfale, il loro è un protagonismo legato alla povertà;  per questo è autentico e accolto dal Signore come norma perenne.

Anche il vangelo è stato costretto a denunciare che sulla «cattedra di Mosè» si sono seduti coloro che riportano la causa del popolo a loro stessi e non già al Signore (cfr. Mt 23,2).

Piero Stefani

149 – Inventarsi eredi, figlie di Zelofcad (11.03.07)ultima modifica: 2007-03-10T12:10:00+01:00da piero-stefani
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