145 – Il disegno, se fosse intelligente, sarebbe crudele (11.02.07)

Il pensiero della settimana, n. 145

 

Anticipo, con alcune varianti, la prima parte di un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista «Il Regno-attualità»

 

All’inizio della Summa Tommaso si chiede: «utrum Deus sit». Questione grandiosa che mette in preventivo la pensabilità della non esistenza di Dio. L’ateo non è né un folle, né uno scriteriato: è una persona che ha degli argomenti a cui è obbligo rispondere. Il doctor angelicus riconosce che il «negatore» ha dalla sua due motivazioni: la prima è l’esistenza del male, la seconda è l’autosufficienza della natura. Nel Medioevo questi pensieri erano di pochi e dovevano essere formulati in luoghi appartati o in mezzo alle tombe come, secondo una novella del Boccaccio, faceva l’«ottimo filosofo naturale» Guido Cavalcanti. Con l’avanzare dell’epoca moderna i ragionamenti sono usciti dai cimiteri per collocarsi al centro dell’agorà.

Molto è mutato dall’età di mezzo, ma in Occidente i due grandi scogli contro cui rischia di incagliarsi una fede pensante restano gli stessi di allora: il male e la natura. L’esistenza di entrambi appare un’evidenza, quella di Dio un problema. A naufragare sono state le risposte che indicavano i modi di passare dal mondo a Dio, non le domande. Le «cinque vie», quasi tutte legate a filo doppio a una fisica premoderna, non conducono più da nessuna parte; mentre rispondere, con Tommaso, che «appartiene all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni» è operazione che sembra dissolvere più che risolvere la questione. È vero, però, che, sotto il suo velo rassicurante, quest’ultima argomentazione cela segrete inquietudini: in base a essa, finché non appare il bene, il male resta davvero tale. Solo l’operazione di Dio che ne muta il segno, riesce a dar senso al negativo. Tuttavia, vista in questo modo,  la prospettiva tomistica si colloca, nella modernità, sul lieve crinale che divide le insidie di una dialettica riconciliativa (che considera il negativo all’interno di una finale sintesi positiva) dai gemiti della creazione che attende una redenzione ancora non venuta (cf. Rm  8,19-25).

Tra le molte figure di riferimento che si pongono tra Tommaso e noi vi è anche  Leopardi. Evocare questo nome significa additare chi, nel modo più eloquente, ha indicato la profonda integrazione reciproca delle due sfide citate dall’Aquinate. Per rendere lampante il nesso basta far sì che sofferenza e infelicità giacciano sotto le scure ali del male. La natura che ci fa stringere il cuore è perciò quella animata, mentre l’altra, a iniziare dalla luna, serve solo da sfondo per dire il nostro dolore di viventi.  Scavando in profondità, neppure le greggi sono risparmiate dalla fatica di vivere. Dalle colline di Recanati si comprendeva che la natura faceva soffrire tutti, ma non si era ancora completamente capito quanto quel dolore costituisse parte integrante del governo del mondo. Nei decenni successivi il soffrire, da destino comune, si trasformò in legge universale. Il saper trarre il bene anche dal male, lungi dall’essere un atto di pertinenza divina, divenne modo di agire specifico, continuativo e regolare della natura. Da allora il tentativo di dimostrare l’esistenza di un Dio creatore e provvidente deve misurarsi, oltre che con pensieri maturati sul «verone del paterno ostello», anche con riflessioni nate sulla tolda della Beagle. La più grande insidia alla provvidenzialità divina prospettata da Darwin non consiste nell’evidenziare la presenza di uno sterminato oceano di sofferenza priva di utilità. Al contrario, la sfida diviene massima quando si dimostra che il dolore è parte ineliminabile della legge in base alla quale il mondo dei viventi sta ordinatamente in piedi.

Il «disegno intelligente» è prospettiva contraddistinta da palesi insufficienze epistemologiche; tuttavia, nell’ambito del pensiero religioso, l’ipotesi dovrebbe trovare la sua più radicale smentita nella inaccettabile sottovalutazione del problema del male da essa comportata. La replica è elementare: un Dio creatore che per far nascere e sviluppare i viventi stabilisce liberamente e intelligentemente la legge dell’evoluzione è assai più simile ad Arimane che al Dio clemente e misericordioso dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam.

Sensibile, come è tipico della cultura anglosassone, alla sofferenza degli animali, Charles Darwin si qualificò, mentre era in procinto di stendere L’origine delle specie, «cappellano del diavolo» appunto perché stava per descrivere opere della natura rozze «pieni di sprechi, grossolanamente erronee ed orribilmente crudeli».[1] Nel 1860 in una lettera ad Asa Gray (studioso che sosteneva la visione di un divino «disegno intelligente» presente nell’evoluzione) Darwin scriveva: «Quanto all’aspetto teologico della questione, esso mi risulta sempre doloroso. Sono perplesso. Non avevo alcuna intenzione di scrivere da ateo, ma devo confessare che non riesco a vedere prove di disegno e benevolenza tutt’intorno a noi così chiaramente come le vedono altri, e come io stesso vorrei vedere. Mi sembra che nel mondo ci sia troppa infelicità».[2]  A conclusione della lettera, aggiungeva: «Non riesco a persuadermi che un Dio benefico e onnipotente possa aver creato di proposito gli ecneumonidi  [imenotteri parassiti che divorano i bruchi da loro paralizzati ma non uccisi] con l’espressa intenzione che vadano a cibarsi dei corpi ancora vivi dei bruchi».[3]

Se fosse semplicemente creatore Dio non sarebbe misericordioso, vale a dire non sarebbe Dio. Per essere pieno di grazia e di bontà il Signore deve essere anche rivelatore e redentore. Ecco perché nell’orizzonte della fede occorre guardare alla creazione partendo dalla rivelazione e dalla speranza nella redenzione e non viceversa.

Piero Stefani




[1] Cit. in O. Franceshelli, Dio e Darwin, Donzelli, Roma 2005,  85. Il filosofo della scienza Franceschelli (cf. Regno-att., 10,2006, 290) in questo suo  libro propone spunti di riflessione teologica spesso più pertinenti di quanto non facciano molti teologi di professione. 

[2] Ivi., 84.

[3] Ivi.,  85-86.

145 – Il disegno, se fosse intelligente, sarebbe crudele (11.02.07)ultima modifica: 2007-02-10T12:33:00+01:00da piero-stefani
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