131 – Un vangelo dipinto (05.11.06)

Il pensiero della settimana n. 131

 

Le prime tracce dell’attuale  monastero di S. Antonio in Polesine vanno ricercate in  un romitorio sorto attorno al Mille su un’isoletta del Po, fiume sulle cui sponde settentrionali stava allora sorgendo Ferrara. L’area fu acquistata, poco dopo la metà del XIII sec., dal marchese Azzo VII d’Este per farne dono alla figlia Beatrice. Quest’ultima, anni prima,  aveva lasciato la corte per rifugiarsi con alcune seguaci nel  piccolo eremo della Rotta di S. Stefano. Non avendo ricevuto, sulle prime, il consenso del padre, Beatrice si mise sotto la protezione di papa Innocenzo IV, il quale le impose di seguire la regola benedettina. Sorse, in tal modo, il monastero di S. Antonio, dove la Beata Beatrice II d’Este visse fino alla morte, avvenuta il 18 gennaio 1262.

La nobile origine del complesso trovò corrispondenza in progressivi lavori di ampliamento e abbellimento. Particolare importanza va riservata all’esteso ciclo di affreschi trecenteschi presenti nel coro. Gli storici dell’arte li attribuiscono ad almeno tre diversi maestri. Nei primi due gruppi prevale una componente riminese, nel terzo sono invece visibili sia influssi bolognesi sia il retaggio della pratica miniaturista. Secondo questa interpretazione, S. Antonio costituirebbe, come Pomposa, un punto di incontro tra le due scuole pittoriche in quel tempo prevalenti nell’area padana. 

Al «Maestro del primo gruppo» (ma a qualcuno sembra opportuno parlare anche qui di più pittori) sono assegnati: «Gesù nell’orto degli Ulivi», «Il tradimento di Giuda», «Gesù re deriso», «Gesù che sale in croce», «Gesù crocifisso tra Maria e Giovanni». Nel primo affresco si vede, sulla sinistra, Cristo in preghiera e sulla destra il gruppo dei tre discepoli addormentati. La presenza di un angelo che, fissandolo, conforta  Gesù orante è un esplicito influsso del Vangelo di Luca, l’unico a riportare il particolare (Lc 22,43). In tutte le altre quattro opere è invece percepibile un forte influsso del Quarto Vangelo: nel tradimento di Giuda colui che sta tagliando l’orecchio al servo ha gli evidenti tratti di Pietro (specificazione presente solo in Gv  18,10): la scena di Gesù con il vestito di porpora e incoronato di spine, pur essendo presente in tutti i Vangeli, riceve una particolare sottolineatura in Giovanni (Gv 19,1-4); tipicamente giovanneo è tanto collocare sua madre e il discepolo amato accanto a Gesù crocifisso (Gv  19,25-27) quanto descrivere il colpo di lancia che squarcia il costato del Crocifisso (Gv 19,31-37). 

Negli affreschi presi finora in considerazione domina una componente descrittiva: siamo di fronte a riprese, quasi letterali, della pagina evangelica. Del tutto diverso è il caso di «Gesù che sale in croce», scena che riassume in maniera molto originale il profondo messaggio giovanneo. A qualsiasi osservatore balza subito agli occhi una caratteristica singolare: appoggiata alla croce, che campeggia al centro dell’affresco,  vi è una scala sulla quale sta salendo Gesù. Egli non vi è disteso a forza, né vi è inchiodato; al contrario, Cristo si offre spontaneamente al supplizio. Gesù sale con le proprie  gambe, braccia e volontà sul patibolo per vivere la propria morte. Sul braccio orizzontale della croce sono inginocchiate due figure: una sta allungando una mano per accogliere Gesù, l’altra afferra un enorme chiodo molto simile ai grani di incenso che, a memoria delle piaghe, si configgono nel cero pasquale. Si tratta di particolari evidenti, colti pure dall’occhio più frettoloso e distratto. Un’osservazione più attenta mette però in luce anche altre caratteristiche. Mentre sta salendo in croce, Gesù ha il nimbo e indossa un leggiadro perizoma fatto di un velo quasi trasparente. Già allora un soldato gli colpisce il fianco destro con la lancia. Il vistoso anticipo della scena ambientata da Giovanni dopo la morte (Gv 19, 31-37) trova riscontro nel fatto che un’alta autorità ebraica – forse identificabile, nonostante la mancanza di vesti sacerdotali,  con Caifa – trattiene con  lo sguardo e la mano due armigeri medievali, muniti di spada e mazza, intenzionati ad avventarsi contro Gesù. I  particolari si riallacciano a vari versetti evangelici. Già nel momento di salire in croce, Gesù realizza le profezie stando alle quali a  lui, come all’agnello pasquale, non sarà spezzato alcun osso (Gv 19,36), già allora dal suo fianco trafitto  sgorgano, salvifici, sangue e acqua (Gv 19,34). Il fatto che l’autorità ebraica, impedendo alla spada e alla mazza di colpire, abbia avuto parte attiva nell’attuazione della profezia non crea difficoltà interpretative; proprio il Quarto Vangelo aveva, infatti, assegnato a Caifa «sommo sacerdote di quell’anno» un ruolo profetico quando aveva dichiarato che sarebbe stato meglio che morisse un uomo solo piuttosto che l’intero popolo (Gv   11,49-52; 18,13).

L’insieme dei riferimenti ribadisce la volontà di raffigurare, accanto alla spontaneità dell’offerta del Figlio,  la continuità tra croce e resurrezione propria del Vangelo di  Giovanni. Gesù non subisce la morte; all’opposto, egli si innalza e, così facendo, attira tutti a sé. Egli dà la propria vita perché ha il potere di riprenderla di nuovo. Qui non c’è il grido dell’abbandono di Dio (Mt 27,46; Mc  15,  34; Sal 22,2); al contrario, vi è l’idea che tutto sia compiuto (cfr. Gv 19,30) nel momento stesso di salire spontaneamente sulla croce: «Per questo il Padre mi ama: perché offro la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18);  « ‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire» (Gv  12,31-32).

L’ispirazione giovannea dell’affresco trova ulteriore conferma nella scena che si svolge nell’angolo in basso alla destra dell’osservatore. In essa vi sono due figure sedute rivestite di lunghe tuniche prive di qualsiasi aspetto militaresco (anzi, una di esse ha tratti quasi femminili). Uno dei due personaggi sta per tagliare con la spada un ampio mantello. Al loro fianco si trova un giovane biondo, «il discepolo amato», che indica con la mano l’atto di dividere la veste. All’interno di una ripresa non letterale del testo, si sta qui riproponendo la scena, ampiamente descritta nel Quarto Vangelo, della spartizione delle vesti colta, anch’essa, come compimento di antiche  profezie (Gv 19, 23-24; Sal 22,19). Assunto nel suo complesso, l’affresco sembra orientato a espandere e a rivestire di una interpretazione visiva, a un tempo dettagliata e sintetica, l’ultima azione compiuta da Gesù nell’atto di vivere la propria morte: «Gesù disse: ‘Tutto è compiuto’. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Al cuore del credente rispondere alla domanda se sia questa la narrazione che gli consente di guardare  nel modo più intenso e vero al Crocifisso.

Piero Stefani

131 – Un vangelo dipinto (05.11.06)ultima modifica: 2006-11-04T13:45:00+01:00da piero-stefani
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