125 – Da Assisi a Regensburg (24.09.06)

Il pensiero della settimana, n.125

 

Molti, negli ultimi decenni, si sono chiesti perché il nodo violenza-sacro (o religioni) sia tornato alla ribalta in modo tanto prepotente. La modernità infatti sembrava averlo sciolto di fatto e di diritto. La risposta per certi versi è semplice: in realtà, esso non è mai del tutto scomparso. Per uccidere non c’è bisogno di Dio e lo stesso vale per il non uccidere. Da sempre la divinità è stata, invece, chiamata in causa dalla varie culture per dichiarare santo, legittimo o doveroso uccidere. Per affermare l’obbligo di spegnere una vita simile alla propria bisogna appellarsi a una realtà che trascende l’umano. Per questo, una volta caduto il riferimento diretto e condiviso agli dèi o a Dio, si è iniziato a sacralizzare realtà secolari (patria, storia, rivoluzione…). Non meraviglia perciò che, a parti rovesciate, sia stata la laicità moderna, di stampo prevalentemente illuminista, a denunciare, per prima, l’irrazionalità della guerra e della pena di morte: a quel tempo era meno facile appellarsi a un’autorità divina che dichiarasse giusto uccidere; né era ancora sorta la sacralizzazione romantica della storia.

Far assumere alle religioni il ruolo di garanti della qualità trascendente della nonviolenza implica perciò un cambiamento radicale. In passato ciò si è, non di rado,  verificato con la rottura connessa al sorgere di una nuova religione, è il caso del buddhismo o del giainismo. Da tempo ci si è però anche chiesti se ciò valga pure per il cristianesimo. C’è chi alla domanda ha risposto affermativamente. Tuttavia, per farlo, costoro, da Marcione a René Girard, hanno, di norma, dovuto contrapporre il cristianesimo sia alla rivelazione contenuta nella Bibbia ebraica (privandolo in tal maniera di un suo irrinunciabile fondamento) sia alle altre religioni. Va da sé che dichiarare la totale estraneità tra vangelo e violenza comporta un giudizio assai severo su secoli di storia cristiana posti sotto tutt’altro segno.

Vent’anni fa nell’incontro interreligioso di preghiera per la pace svoltosi ad Assisi, Giovanni Paolo II ha prospettato una sua via per sciogliere il groppo che stringe tra loro religione e violenza. Lo fece prima di tutto prospettando la qualità trascendete della pace. Il suo collegamento con la preghiera è perciò addirittura costitutivo. In secondo luogo, confessò la incoerenza in cui erano così a lungo vissuti i cristiani. Si tenga presente che questa ammissione penitente ha potuto aver luogo solo perché, così facendo, si affermava anche la continuità della storia cristiana. Quando c’è una rottura netta non ha alcun senso chiedere perdono per il passato. Infine, postulando in modo indimostrabile la presenza in tutte le tradizioni religiose di una tutela assoluta della vita, convocò, sotto il condiviso primato di una preghiera per la pace, gli esponenti di molte  e diverse religioni. In ciò non vi era nulla di relativista, né tanto meno di sincretista. A essere comune non era la preghiera. La formula allora adottata fu chiarissima: insieme per pregare e non pregare insieme. Alla base era posta la qualità trascendente della pace. Al riguardo il ragionamento teologico proposto da Wojtyla potrebbe riassumersi in queste parole: la pace ha come suo fondamento e garanzia un solo nome: Gesù Cristo; perciò chiunque prega autenticamente per la pace lo fa, lo sappia o no, nello Spirito di Cristo risorto. In questa luce la fede cristiana, pur essendo altro, non si contrappone alle religioni.

Di recente Benedetto XVI ha scritto una lettera al vescovo di Assisi per celebrare il ventennale di quella memorabile giornata di preghiera. In essa il papa ribadisce in maniera del tutto pertinente il carattere non relativista dell’incontro. Nel farlo ricorre però, in maniera meno persuasiva, alla scelta di culturalizzare le religioni. Esse – come rivela un eloquente inciso del testo – sono in sostanza frutto della capacità data a ogni uomo di riconoscere Dio a partire dal creato (cfr. Rm 1,20). Qui, dunque, il processo va dal basso verso l’alto. Inoltre in esso un ruolo importante è attribuito alla ragione, la sola facoltà in grado di riconoscere il proprio Creatore. In questo quadro il logos assume la funzione universale altrove affidata allo Spirito del Risorto. Ben si intende, sul piano della riflessione teologica questa impostazione è del tutto corrispondente a quella di Giovanni Paolo II (cfr. l’enclitica Fides et ratio); tuttavia non è errato sostenere che nello «spirito di Assisi» ci fosse una diversa apertura nei confronti dell’azione universale dello Spirito che si manifesta come preghiera e supplica, non solo come ragione.

L’incontro tra rivelazione biblica e logos greco è il cuore della lectio magistralis svolta da Benedetto XVI a Regensburg. La cifra di questo connubio è racchiusa nella valutazione lì proposta della traduzione greca della LXX. In essa l’autorivelazione biblica dell’Essere («Io sono») trova la lingua capace di renderla compiutamente dicibile. In quella traduzione si gettano in tal modo le basi della paradigmatica sintesi avvenuta tra rivelazione biblica e logos greco. L’apparente contraddizione di dover aggettivare con un riferimento a un termine geografico-culturale («greco») una parola dotata di pretese universali (logos) va, al contrario, intesa come il sigillo dell’incontro, a un tempo storico e archetipico, tra rivelazione biblica e ragione aperta alla fede.

Papa Ratzinger attribuisce al carattere unico e fondativo di questa sintesi una funzione determinante per enunciare la verità e quindi stabilire la pace (cfr. Nella Verità la pace, messaggio per la giornata della pace 2006). Al di fuori di questo incontro ci sono infatti solo due alternative: o  la pretesa della ragione di autofondarsi o quella della fede di dirsi a prescindere dal logos. In entrambi i casi si sfocia nel predominio della violenza. Da una parte la ragione, non aprendosi all’autorivelazione dell’Essere, diviene scientista e tecnica e quindi strumentale e strumentalizzante (la manipolabilità dell’umano è, al riguardo, il segno più drammatico e inquietante), dall’altra la fede, quando presenta il proprio assoluto a prescindere dal logos, è portata a giustificare la violenza come mezzo per la propria affermazione. In Europa, terra di elezione dell’incontro tra rivelazione biblica e logos greco, non sono mancati tentativi di esprimere volontaristicamente l’assolutezza della fede. Le varie ondate che hanno cercato di de-ellenizzare il cristianesimo si situano in questo contesto. Tuttavia nel discorso di Regensburg il simbolo di una fede che si dà come assoluta a prescindere dalla ragione è stato individuato, in maniera discussa e discutibile, soprattutto nell’islam. In seguito lo stesso pontefice  ha, però, largamente smussato   gli spigoli della sua affermazione (cfr. in particolare la catechesi di mercoledì 20 settembre).  Da qui l’impressione di attribuire ad accidentali fatti storici (per i quali non occorre esprimere il proprio pentimento) le indubbie connessioni esistenti tra cristianesimo e violenza e di assegnare, per contro, a quel nesso un carattere costitutivo in relazione alla fede musulmana.  In terra cristiana la violenza è quindi spiegata in modo storico-secolare (le religioni come instrumentum regni), mentre nella casa dell’islam il nesso è giudicato più organico.

Agganciare alla sintesi tra rivelazione biblica e logos greco la risposta religiosa alla violenza storica e antropologica comporta che, rispetto alla storia europea (religiosamente figlia di quell’incontro), tanto la violenza quanto il suo rovesciamento non assurgano mai al ruolo di temi teologici fondamentali. Non sorprende quindi di non trovare la pace al centro del pensare teologico di Ratzinger. Per il papa lo spazio nevralgico è occupato da una verità rivelata dicibile in maniera propria soltanto attraverso il logos greco. Tutto il resto, compreso il superamento della violenza, consegue da questo incontro. In realtà, le cose stanno in modo diverso: solo se si getta, con coraggio, uno sguardo nell’oscuro baratro nel quale le fedi, specie quelle monoteiste, si accoppiano con la violenza si può sperare che, per opera dello Spirito di Dio aleggiante sull’abisso,  irrompa la luce della pace.

Piero Stefani

 

125 – Da Assisi a Regensburg (24.09.06)ultima modifica: 2006-09-23T14:15:00+02:00da piero-stefani
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