126 – Con (01.10.06)

Il pensiero della settimana n. 126

 

Vi  è un’antica questione riguardante il fatto se si pensa perché si hanno le parole o si hanno le parole perché si pensa. Qualunque risposta si scelga, resta fondato il sospetto di non dover dare molto credito a chi afferma: «lo so ma non trovo le parole». Il motivo della cautela non riguarda studenti in difficoltà. Con questo tipo di osservazione si è ancora alla superficie. A dimostrarlo è il fatto che solo quando si trova la parola l’idea giunge alla sua compiutezza. Da vaga diventa netta. La foschia si solleva e i contorni si fanno nitidi. Tutti allora si accorgono che, se c’è un matrimonio indissolubile, questo avviene tra pensiero e parola.

Questa esperienza è comune a ogni traduttore. Se si capisce il senso e non si trovano le parole il significato non viene pienamente colto. In tali circostanze si percorre su e giù il lessico con il pensiero. Nel vocabolario mentale o cartaceo si va alla ricerca del lemma giusto. Quando lo si trova ci si trasforma in piccoli Archimede: si può esclamare «eureka».  Solo allora la resa è piena. Tuttavia nel gran prato del linguaggio non è sempre dato di cogliere il fiore che corrisponde appieno alla bisogna; a volte occorre accontentarsi di uno già un po’ sfiorito. Se fosse in boccio si potrebbe attendere, ma in questo caso il passare del tempo non fa che peggiorare la situazione. A malincuore ci si accontenta.

Vi è anche un’altra situazione. Essa insorge quando la parola e il pensiero sono giunti ai bordi estremi: oltre vi è solo il precipizio. In questi casi ci si deve impegnare a dire o a scrivere quanto non sembra che sia mai stato pensato. Per comunicare il nuovo o l’assolutamente diverso occorre sforzare il linguaggio.  La situazione può insorgere anche nel confronto tra culture. Quando si deve trasferire in una lingua diversa una frase espressa in un idioma del tutto differente, la fedeltà pedissequa non è una buona compagna del traduttore. Nella sua lectio magistralis di Regensburg Benedetto XVI ha esaltato la biblica versione greca della LXX fino a renderla tappa indispensabile del cammino della rivelazione. Eppure lui stesso ha dichiarato che essa non è una buona traduzione. Non è necessario condividere questa valutazione teologica per sostenere che in questo accostamento vi è coerenza. Solo una resa non perfetta riesce a far dire altro alla matrice originaria. La LXX  doveva perciò essere, per molti aspetti, infedele sia all’ebraico sia al greco classico (persino nel senso delle parole; per dirne una, doxa significa non più opinione ma gloria).

Chi si è trovato più volte di fronte al compito di forzare i limiti del linguaggio in cui scriveva è stato Paolo di Tarso. In lui non mancano i neologismi, più di uno legato alla particella syn, «con». Tuttavia anche senza neologismi il lessico è spesso curvato a dire cose diverse dal consueto. Emblematico al riguardo il  ricorso al «con». Per Paolo esso ha in genere un valore cristologico che culmina in frasi come quelle che esortano a con-morire con Cristo e a sperare di con-risorgere con lui (Rm  6,5).

C’è però almeno un caso, non esplicitamente cristologico, in cui Paolo, pur usando un verbo attestato nel greco classico, affida al «con» un ruolo diverso e decisivo. Si tratta dell’inno all’agapē (1Cor 13). Quando elenca le caratteristiche dell’amore, egli afferma che esso non si rallegra/gioisce (chairō) dell’ingiustizia ma si con-rallegra/gioisce della verità (13,6) (la versione CEI rende piattamente «si compiace della verità»). Il verbo è pieno di risonanze bibliche (è anche quello del saluto a Maria Lc 1,28), ma qui si può persino prescindere da esse. Nella frase si alza innanzi tutto la paratia del «non». Gioire dell’ingiustizia significa affermare con soddisfazione la propria ragione a fronte al torto altrui. Se, quando si vince, sia pur con fondamento, ci si rallegra a motivo del fatto che altri perdono in qualche modo si gioisce per la loro ingiustizia. È regola normale in molti campi, compresa la politica, ma essa non è conforme all’amore. Queste vittorie hanno significato, ma di esse non bisogna (troppo) gioire. Che altri siano nell’errore non dovrebbe essere motivo di allegrezza per nessuno.

Sul versante affermativo invece le paratie vengono sollevate e scorre la corrente del «con». Nella verità occorre con-gioire. Bisogna con-rallegrarsi di non essere i soli possessori della verità. Questa dialogica esultanza è un sigillo che trasforma l’accoglimento della verità in processo veritativo. In questa luce, spiccano il volo anche espressioni ormai banalizzate, tipo «bisogna riconoscere la verità che è nell’altro». Godere della propria verità significa in effetti tradire la verità. Essa è infatti tale solo se è condivisa. Anzi di più: la verità diviene effettivamente tale solo se con-gioita. Un tempo era abbastanza frequente  udire la frase latina «veritatem autem  facientes in caritate» (alētheyontes de en agapē) (Ef 4,15). La si impiegava per lo più come una specie di «galateo spirituale»: certo bisogna dire la verità, ma con le buone maniere e senza offendere la suscettibilità altrui. In realtà, il legame è ben più forte. La dimensione pragmatica non è secondaria. Sotto molti aspetti, la verità si fa davvero nell’amore. Nella carità il con-gioire diviene momento costitutivo della verità stessa.

 Piero Stefani

126 – Con (01.10.06)ultima modifica: 2006-09-30T14:10:00+02:00da piero-stefani
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