121 – Dall’arcobaleno al tricolore (16.07.06)

Il pensiero della settimana, n.121.

 

Quando negli anni cinquanta in Italia iniziarono le trasmissioni della televisione di stato gli apparecchi erano pochissimi. Ben presto Lascia o raddoppia divenne però per molti un appuntamento da non perdere. Si andava quindi dai vicini o nei bar. Poi i televisori si moltiplicarono, entrarono in ogni casa e, in certi casi, in ogni stanza.  Come avviene nelle camere d’albergo, anche negli appartamenti stare da soli davanti al televisore diventò cifra simbolica della solitudine. Tuttavia il fattore socializzante legato alla televisione non scomparì mai del tutto. A tenerlo desto vi erano le partite. Allora ci si riuniva in piccoli gruppi davanti allo schermo.  Dopo il ’68, in occasione di alcuni trionfi calcistici degli azzurri o di qualche club milanese, la visione semi-collettiva si prolungava nella manifestazione per le vie e per le piazze. Iniziarono caroselli automobilistici e sventolio di bandiere. Il chiuso delle stanze non bastava più, bisognava scendere in strada. L’apoteosi fu raggiunta nel 1982 quando il suolo italico si coprì di drappi tricolori e le città risuonarono di frastuoni di clacson .

Sono passati ventiquattro anni e la tecnologia ha di nuovo inciso sul costume. Lo spirito del gruppo allargato ha conquistato anche il momento della visione. È giunta l’era dei maxi-schermi. Non solo il festeggiare, ma anche il guardare, il tifare, l’imprecare, il rammaricarsi, l’urlo fattosi silente dopo la rete subita, il mogio ritornare sui propri passi con le bandiere ripiegate sono diventati fenomeni collettivi. Per aver parte a questo banchetto visivo bisogna però indossare la veste adatta. La liturgia impone magliette, copricapi, stemmi ma soprattutto bandiere. Le si compra, le si costruisce, le si allunga a dismisura. Il tricolore ha un duplice vantaggio: è portato in giro e nel contempo diventa segno statico che demarca gli edifici. Nel complesso indica l’appartenenza unitaria di un paese che, dopo le elezioni di  tre mesi fa, i più giudicavano diviso a metà: la «nostra bandiera» ha ricomposto i dissidi all’insegna della vittoria.

La sotterranea  dimensione di guerra dissimulata propria degli sport di squadra (cfr. pensiero, n. 116) in questi giorni è diventata riconoscibilissima: il tricolore sventola perché un altro è stato ripiegato. Ogni nostro trionfo comporta la sconfitta dell’avversario. Nulla unisce di più dell’esaltazione della vittoria. Il calcio italico è ammorbato da una corruzione endemica, i nostri eroi sono carichi d’oro dalla testa ai piedi, danno gomitate ai fianchi degli avversari e prima di essere colpiti da testate lanciano atroci insulti ripresi dal vicepresidente leghista del Senato, eppure chi stenta a giungere a fine mese con il suo stipendiuccio si esalta e si identifica con il trionfo dei nababbi del pallone. Per quanto nessuno li abbia eletti, essi sono diventati i veri rappresentanti della nazione.

Un osservatore dalla vista acuta e dall’animo paziente potrà ancora vedere in qualche riposta finestra stinte e consunte le bandiere dai colori dell’arcobaleno che tre anni fa tappezzavano l’Italia dalle Alpi alla Sicilia. Esse, sia pure in modo pericolosamente simile alle manifestazioni di parte, volevano richiamare l’attenzione su colori che erano di tutti in quanto non erano contro nessuno. Per questo, nel corso dei mondiali, nessuno ha sventolato o appeso le bandiere dell’arcobaleno: ora è giunto il tempo del tricolore. Allo stato attuale la partita è in pareggio: all’arcobaleno la guerra vera, al tricolore quella dissimulata. Sarebbe però illusorio credere che si sia definitivamente scongiurata la possibilità che ritornino i tempi bui in cui l’esaltazione della bandiera possa riferirsi anche a guerre vere.

Piero Stefani

 

 

121 – Dall’arcobaleno al tricolore (16.07.06)ultima modifica: 2006-07-15T14:35:00+02:00da piero-stefani
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