122 – Il mondo di primo e di secondo grado (03.09.06)

Il pensiero della settimana, n. 122

 

Vi sono molti modi di porsi al cospetto della realtà. Uno tra essi è di vederla attraverso il filtro dei rimandi a testi scritti. In queste circostanze le cose cadono nel cono d’ombra della parola. Molteplici sono le maniere per compiere anche  quest’ultima operazione. Nel mondo tradizionale ebraico, per esempio, la dinamica si prospettava pressappoco così: per interpretare le immagini di un sogno si ricorreva a versi della Bibbia, l’arcobaleno rimandava al patto di Dio con Noè, i fichi e i melograni erano associati ai frutti della terra d’Israele di cui parla il Deuteronomio, le stelle alla promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza e via dicendo. Non erano «libere associazioni»: era un benedicente riconoscimento dell’opera di Dio. Il Libro dischiudeva il mondo perché era il secondo a derivare dal primo.

Nella modernità è più facile cogliere andamenti secolarizzati. Tra essi vi è quello poetico. Si potrebbe definire il letterato come colui che, più del mare, scorge il «tremolar della marina», colui che, di fronte allo scorrere di un ruscello pensa a «chiare, dolci, fresche acque», o, davanti a una foglia che si stacca, evoca i soldati di Ungaretti; mentre il tramonto della luna induce la sua memoria a correre al letto di morte di Leopardi. Senza l’antico primato della parola creatrice, la pregnanza del procedimento si assottiglia. Per chi lo compie resta comunque un atteggiamento suggestivo, per gli altri è invece un atteggiamento sostanzialmente innocuo (al più può essere giudicato lievemente maniacale).

Tutte differenti le conclusioni da trarre nel caso più artificiale e pervasivo in cui nelle società odierne si registri la precedenza qualitativa dello scritto sulla realtà. Esso non ha nulla a che fare né con la parola rivelata, né con quella poetica; siamo infatti di fronte all’egemonia burocratica del documento. Quanto fa testo non è la persona ma il pezzo di carta (o di plastica) che essa può o non può esibire. Solo l’abitudine ci impedisce di vedere il grado di astrazione contenuto nell’espressione «carta di identità». Termine evocato con frequenza eccessiva, la parola identità è chiamata oggi a svolgere molti compiti di natura culturale, civile, sociale, religiosa, politica. Nessuno di essi è semplicemente racchiudibile negli scarni dati riportati su un documento. Eppure, in varie circostanze è quest’ultimo a garantire agli altri che tu sei tu. Una foto, una data, un’altezza, il colore degli occhi comprovano più della persona in carne e ossa. Il paradosso maggiore si tocca in relazione ai capelli. Se ne registra il colore ben sapendo che esso è soggetto a facili mutamenti artificiali (più complesso, ma non impossibile, farli ricrescere. Di recente una nuca ha mostrato alle moltitudini che i risultati al riguardo possono essere strabilianti). Inoltre, a seconda dei sistemi giuridici, si discute sottilmente se e fino a che punto i capelli possono essere coperti da un velo o da un turbante. Peraltro lo spazio concesso a una dimensione di secondo grado di garantirne una di primo apre, per definizione, la via anche alle falsificazioni: è più facile manipolare un documento che l’autentica identità personale.

Tutto quanto abbiamo fin qui detto resterebbe divagazione intellettuale se non si  fosse costretti a prendere atto che la vita concreta di milioni (o forse miliardi) di persone dipende dal possesso o dalla mancanza di un documento. Cittadinanza, permessi di soggiorno, visti possono decidere della vita o della morte. Se sei clandestino la tua vita è appesa a un filo. Devi affrontare viaggi rischiosissimi, puoi essere respinto alla frontiera o espulso dal paese, una volta entrato non puoi uscire e rientrare e da questo impedimento dipendono struggenti lontananze dai propri cari e dalla propria terra. L’umano è imprigionato nella realtà di secondo (o terzo) grado delle burocrazie amministrative.

A prezzo della propria vita, Iris, una baby sitter clandestina, salva dalle acque la bambina a lei affidata. Il  Corriere della sera dedica al caso un trafiletto anonimo in cui si afferma che sarebbe ora «di vedere in ogni persona, cittadino o straniero, con una carta di identità o senza, un essere umano. E giudicarne gli atti non per la nascita o per l’origine, ma per i comportamenti». Parole nobili, ma generiche se non si specifica il soggetto di quel vedere: anche gli stati? anche le amministrazioni? anche gli apparati di polizia? anche chi ha aperto un procedimento giudiziario nei confronti dei datori di lavoro di Iris per aver violato la legge Bossi-Fini? L’esistenza di un diritto cosmopolitico che avesse come soggetto la persona umana cittadina del mondo fu un sogno del grande Kant. Pericoloso non tenerlo come ideale, illusorio credere di poter spazzar via con un colpo di spugna il mondo di secondo grado della burocrazia, moralmente obbligatorio cercare  di contrastarne il disumano strapotere.

Piero Stefani

122 – Il mondo di primo e di secondo grado (03.09.06)ultima modifica: 2006-09-02T14:30:00+02:00da piero-stefani
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